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Ci sono nomi di fronte ai quali non si può dire “bau” senza passare per snobisti. Danger Mouse è uno di questi, un produttore-musicista che, a parte le cose sue con i Gnarls Barkley (superlative), ha trasformato con il suo tocco qualsiasi artista passato sotto le sue grinfie (il Beck di “Modern Guilt” su tutti), ed è prerogativa di pochi riuscire ad influire su personalità di cotanto livello, marcandole. Non domo dei progetti con Cee-Lo, dunque, si è buttato in quest’avventura dei Broken Bells intercettando (o spalleggiando) la stanchezza che James Mercer aveva dimostrato per gli Shins nell’ultimo “Wincing The Night Away” (anche se pare che i due avessero iniziato a collaborare già da prima in tempi non sospetti). Ne è scaturito un “supergruppo”, utilizzando quella che è una definizione abusata ma inevitabile.
“Supergruppo” non vuol dire però “supermusica”, come tante volte operazioni del genere hanno dimostrato. E anche stavolta c’è qualcosa che non torna. Se tralasciamo il singolo “The High Road”, di una delicatezza malinconica superba a livello di una “Karma Police” dei giorni nostri, il resto è pop con accenni psichedelici che scorre via piuttosto bene ma non si fa riascoltare con l’acquolina in bocca come si poteva supporre dopo aver sentito l’anticipazione di quel singolo.
Un po’ perché alcuni pezzi sarebbero stati meglio in capo ai Gnarls Barkley (ad esempio, “The Ghost Inside”), un po’ perché altri hanno giri di accordi che sembrano composti in tre secondi e mezzo (“Vaporize”), “Broken Bells” risulta – in fin dei conti – un album che nasconde in sé qualche apertura davvero di rilievo (l’ingresso di “Your Head Is On Fire”), dei suoni che da soli creano uno stile, ma poche canzoni di altissima levatura, con il punto più basso in “Mongrel Heart” che ha tutta l’aria di un plagio dei Kings Of Convenience.
E tutto ciò è un po’ un peccato, date le premesse.