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Manca ancora la serata di chiusura al Reeson Electric Festival a Sassari. Gli Zu (preceduti dai sassaresi Iskeed) suoneranno il 24 giugno nel locale Aggabachela che ospita la rassegna e si preannuncia un finale col botto. Ma le immagini che rimangono nella memoria sono le esibizioni dei sei gruppi internazionali (diventati sei dopo la defezione degli statunitensi Devil’s Horns Kill the Matador) che hanno portato sul palco del locale sassarese musica di altissima qualità. Bisogna dare subito merito agli organizzatori della kermesse di aver dato vita a un appuntamento musicale che dalle parti di Sassari e in generale del nord Sardegna è una vera e propria rarità. Purtroppo il pubblico non ha risposto come ci si poteva aspettare. Non tanto per disinteresse, quanto per una vera e propria “allergia” ai biglietti d’ingresso di qualsiasi entità (in questo caso l’ingresso per ogni serata era di appena 5 euro). Aver visto il locale pieno solo a metà durante i concerti e poi strapieno dopo (quando non si pagava più l’ingresso) ha lasciato giustamente un po’ di amaro in bocca a chi comprende l’importanza di concerti come quelli dell’Electric Festival.
Giovedi 10 giugno
L’inizio della prima giornata del festival è affidata ai croati Seven that Spells, che suscitano subito tanta curiosità, vuoi per il fatto di provenire da un paese della cui scena musicale in fondo si sa poco, vuoi per i numerosi pedali ed effetti già pronti sul palco per chitarrista e bassista. La formazione dei Seven that spells è assolutamente minimale, basso, chitarra e batteria. Si presentano sul palco con pezzi strumentali potentissimi segnati da un power rock dissonante e distorto che ricorda i Melvins, ma anche in parte Liars e Oneida. Il trio croato ci mette poco a coinvolgere il pubblico anche presentando i pezzi in un italiano quasi perfetto. L’ottimo lavoro di chitarra ed effetti viene puntualmente coadiuvato dalla precisa sezione ritmica di basso e batteria. In definitiva è un gruppo che si meriterebbe molta più notorietà di quella che ha attualmente e che non sfigurerebbe in mezzo a gruppi statunitensi che si cimentano sugli stessi generi.
E’ poi la volta dell’attesa Rose Kemp, nome emergente della musica inglese. In realtà la cantante, accompagnata dai suoi musicisti, non sembra entrare nella giusta atmosfera e la sua esibizione risulta un po’ pesante, segnata da un rock doom dai toni epici che non ha mai momenti di punta e appare alla lunga ripetitivo. Peccato perché nonostante questo la giovane cantante e chitarrista impressiona per le sua duttilità vocale, che però non pare utilizzata in modo efficace.
Venerdì 11 giugno
La giornata di venerdì inizialmente aveva in programma tre gruppi, che però si sono ridotti a due per la defezione all’ultimo dei rumoristi americani Devil’s Horns Kill the Matador. I primi a salire sul palco sono gli austriaci Been Obscene, autori di uno stoner rock piuttosto classico che richiama mostri sacri del genere come i Kyuss o i già citati Melvins. Il set ci mette un po’ a carburare ma l’impatto sonoro generale è comunque coinvolgente con delle buone parti vocali e soprattutto ruvidi riff chitarristici. Però il gruppo che infiamma definitivamente il pubblico sono senza dubbio i Dean Allen Foyd, quartetto svedese che si presenta sul palco sfoderando un garage rock blues dalle tinte psichedeliche di chiara ispirazione sixties e seventies. Coinvolgenti, divertenti e con grande presenza scenica, hanno subito conquistato la platea, forse già ben abituata a questi suoni dalla florida scena garage rock dell’isola.
Sabato 12 giugno
La serata di sabato la iniziano gli Hills e conducono il pubblico in un viaggio psichedelico di forte energia che lascia poco spazio a parti vocali, se non effettate, ma ha come protagoniste assolute le chitarre che spesso si lanciano in territori tipicamente shoegaze. Il set, che dura poco meno di un’ora è nel complesso fluido e gradevole. Il meglio però deve ancora arrivare. Tocca infatti agli On Trial, formazione danese attiva già da una ventina d’anni. E l’esperienza sul palco si sente tutta. Grande presenza scenica del cantante (una sorta di Josh Homme più smilzo) e ottime parti strumentali. A tratti i cinque musicisti danesi sembrano gli Spiritualized nei loro momenti più spiccatamente rock, con brani che rimangono subito in testa, in particolare quelli tratti da “New day rising”, album del 1999.