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Bando ai preamboli: a giudicare dal nuovo album “Loophole” (uscito qualche mese fa per la fiorentina Forears), gli Elton Junk si confermano come una delle poche risorse del rock italiano. La loro musica è generosa, evocatrice di echi e risonanze infrageneri e di dolcissime suggestioni para-psichedeliche. Hanno dalla loro un paio di cosette fondamentali come il profilo basso e l’amore per la musica. Cose che non si possono comprare o aggiungere con Pro Tools. I ragazzi trasudano una buona cultura musicale, mai spocchiosa, che ne dirige gusti ed espressività: è facile riconoscere forti radici grunge (sulle quale i tre Junks devono essersi fatti le ossa e le orecchie), ombre blues da cavarena (quella grande e profonda cavità scavata, abitata e personinificata da Nick Cave) contaminata, indolenti armonie sixties, adesività da post (it) rock e atmosfere mutuate dalla lezione della trilogia oscura younghiana. Tutte cose buone e giuste.
E’ veramente cosa buona e giusta conservare la disperazione e la fragilità di intuizioni asciutte e viscerali, senza piegarsi ai mezzi armonici e atmosferici di arrangiamenti ben curati e prodotti. Le tastierine, i synth, i violini, le tristi trombe e le varie tappezzerie sonore restano un accessorio, che esalta senza snaturare, la sostanza rock del trio. Bravo il produttore! Furbizia o ingenuita? Calcolo o colpo di culo? Il confine è davvero labile e forse è per questo che il disco ha punti di estrema forza e conseguenti banalità. Prima di tutto c’è da rimproverare un mixaggio un po’ piatto. Ci sono momenti in cui il volume, il dolore e il rumore dovrebbero crescere, come è fisiologico e importante che sia, ma ciò non avviene. C’è il solito dicotomico alternarsi del testo in inglese e in italiano e, come da programma, l’idioma nostrano risulta inadeguato e deludente. Inghilterra batte Italia 8-3, fuori casa e con Capello in panchina.
Gli Elton Junk cercano, in verità, un uso del linguaggio più o meno originale, lontano dai triti modelli marleniani, baustelliani, moltheniani, o deandreiani del caso (o, permettetemi, del cazzo). I lunghi paroloni italiani inseguono, senza sposare, le linee melodiche e il risultato è spesso goffo. C’è in compenso lo spettro di Federico Fiumani. E’ così per la prima traccia “Al Fiume”, in potenza una delicata sintesi di eleganza e fricchettonaggine, un po’ come Alan Sorrenti di “Vorrei Incontrarti” accompagnato dai Radiohead, ma più stonato e imbarazzato. Funziona molto meglio la cavalcata bassistica di “Lost”, melodia dissonante e lasciva, tesa su un groviglio sonoro che poi esplode nel finale psichedelico. La dolce “All Along the Horizon” potrebbe essere un b-side malinconico dei Fugazi, periodo “Argument”: Andrea Tabacco affila e poi ammorbidisce la voce intrecciandola agli arpeggi della sua delicata chitarra, il batterista Giulio Pedani lavora di atmosfere e rimbalzi, da vero professionista, e il basso di Alessandro Pace riempie e arrotonda gli spazi vuoti, sostenendo la cadenza ritmica in battendo e raddoppiando. La title track parte benissimo, virando presto nel southernrock. Ha un ritornello pensoso e angustiato a cui risponde l’allegro pop anglosassone di “Particular Skills”, una cantilena da mod acido tutta levare e crescendo vocali e notine e accordi di piano elettrico. In “Ieri Ho Mangiato la Strada”, il gruppo racconta la propria vita on the road, con una ninna nanna ariosa e soffice. In “Summer” si manifesta l’estro più sinistro e cerimoniale del trio, in bilico tra blues minimale e wave crepuscolare. E’ un piccolo e smaliziato omaggio ai Velvet Underground, con tanto di arco straziante. “The Beast Called Rock and Roll” è un buon hard rock testosterionico, che da’ potenza e forza a tutto il disco, prevalentemente orientato su produzioni mediane. La finale “Del Miele” è un’ipnotica cantilena di synth e ridondanza tematatica. Un buon esperimento. Capite bene che questo cd potrebbe far bene alla vostra collezione: tra dieci anni vi chiederete “ma nel 2010 è uscito almeno un disco decente in Italia?”. Di veramente decente non è uscito e non uscirà niente, ma qualcosa di carino sì. Eccolo a voi. Prendete e mangiatene tutti.
P.s. So che il cantato in italiano dovrebbe essere incoraggiato, che l’orgoglio nazionale dovrebbe essere sempre un valore aggiunto, per tanti giustissimi motivi… ma io suggerisco di lasciar perdere. Impariamo che il calcio e il rock and roll non sono più cose italiane. Imitiamo i linguaggi altrui che è meglio. Peace and Love.