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È l’idea che conta, la proposta multietnica di un zingaresco collettivo che praticamente rappresenta mezzo mondo (dalla Russia all’Etiopia, da Israele al continente americano) di dar vita a un ideale continente fondato sul credo della musica. E se quest’idea fa anche dannatamente ballare in un delirio gioioso allora non disturba molto se non porta novità.
Nulla di nuovo infatti sul fronte mondiale tutto incluso nel celeberrimo gruppo dei Gogol Bordello.
Se un collettivo di lusso, come ormai è il nostro Bordello, che contempla una miscela di generi musicali disparati (musica ucraina e zigana, folk balcanico, punk, ska, reggae, hip hop, klezmer, ecc.) quando alla ricchissima proposta aggiunge anche quella calda del Sud America non sta inventando ma sta solo sommando, sta uniformando. Anche se a mettere le mani sulla produzione del settimo album “Trans-Continental Hustle” è il guru Rick Rubin, che si è inteso alla perfezione con il buon Eugene Hütz, lider maximo del gruppo.
Ma fa niente lo stesso! I nostri possiedono il genio della cosiddetta confidenza che permette loro di toccare le corde delle anime sparse nel mondo senza spettacoli ed effetti speciali, e quindi di stupire con poco.
La fa sempre da padrona la patchanka dei Mano Negra, ma anche dei Les Négresses Vertes e forse risuona qualcosa anche dei Gipsy Kings. E non c’è pericolo di incorrere in blasfemia facendo un accostamento del genere, perché il bello dei Gogol Bordello e del gipsy punk che rappresentano è che puoi permetterti di celebrare una festa di collettivi e di musica invitando proprio tutti, senza temere che qualcuno non risponda all’invito.
E se dovessimo scomodare la qualità aristotelica principale per la quale un’opera d’arte è pienamente realizzata se raggiunge il suo scopo, “Trans-Continental Hustle” la scomoda con voluttà, visto che l’intento perseguito è anche questa volta raggiunto con il pieno dei voti: la festa è assicurata, si balla, ci si diverte, ma si fa anche polemica seria, si parla dolorosamente di tematiche scottanti, che se non hai un filo di poesia nella tua vena artistica rischi di restare al palo dell’ingenuità. Insomma musica da protesta con divertimento annesso, da festa dell’Unità… ma di quelle che c’erano una volta.
Non importa se poi i brani filano via uno dietro l’altro più o meno uguali tra loro, quel che conta è mirare al cuore dei problemi e raggiungerlo, anche se con lo stesso proiettile.
Restano comunque alcune gemme che meritano di essere segnalate per la pregevole ispirazione e la raffinata fattura che con arte navigata nasconde i punti di saldatura tra i generi: “Sun On My Side”, malinconica e partecipata che contiene in sè l’antico dolore dei reietti (“My half-breed odyssey/Your orphan prophecy/Our destiny we will not hide), “Rebellious Love” l’inno di zigani in tenuta da guerra (“Will They Ever Capture/One Another?), “Immigraniada” un manifesto energico che si dipana tra raggae, ska, rock e qualcosa di trash, oppure “When Universes Collide” forse la perla dell’album, una ballata balcanica con l’anima di un klezmer che trattiene fin quanto può una potenza esplosiva che rasenta la disperazione, trova appagamento e si ricompone in una chitarra e una fisarmonica quanto mai meste, il tutto con la stupenda interpretazione di Eugene.
(Stefania Italiano)