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Con una presentazione di lusso, cioè la cover di Storm Thorgerson che ricorda vagamente “Five leaves left” di Nick Drake, i Pineapple Thief sono ritornati: ed ecco “Someone here is missing”, album orecchiabile, piacevole, curato con perizia nei suoi intrecci musicali, a volte persino trascinante. Ma tutto ciò non basta per farne un disco convincente, minato come pare da un’irrimediabile impersonalità.
Come descrivere in altro modo quello che sembra una tale carenza di idee da attingere alla borsa altrui? Con trasfert sonori piuttosto imbarazzanti sembra di sentire i Muse, i Porcupine Tree, i The Cooper Temple Clause (ai quali si sono avvicinati più che mai, per scelte e per risultati. Basti l’ascolto del primo brano “Nothing at Best” quasi sovrapponibile all’apertura di “Isn’t It Strange” del sestetto britannico), il che non dispiacerebbe: la citazione è una soluzione vitalissima per continuare verso improvvise conclusioni un argomento già intrapreso da altri.
Tuttavia qui il gioco delle citazioni non funziona, poichè non è pretesto per riverberi, omaggi, riconoscimenti, trampolini che impostino la traiettoria di una ricerca artistica propria o, che so, per intercettare gli umori musicali innovativi del momento. Piuttosto è la prova di uno smarrimento.
Sembra di assistere infatti a una clonazione, e nello specifico alla clonazione della svolta elettronica che colpisce ciclicamente un po’ chiunque: deve esistere una sindrome endemica che si ripresenta quando ci si aspetta qualcosa di nuovo da un artista, la svolta elettronica per l’appunto. Non si tratta di un giudizio negativo nei confronti dell’elettronica.
Solo che se nel dna di un’ispirazione poetico-musicale l’elettronica è contemplata come il segno di un’evoluzione verso lo stupore dell’ascoltatore, allora resta solo l’aspetto più povero dell’evoluzione stessa, vale a dire l’imitazione. Imitazione di qualcosa che suona bene ma che non si comprende fino in fondo.
Che non ci sia una convinzione matura alla base di “Someone here is missing” è evidente dalla quasi precisa alternanza tra brani minacciosi e ballate da pungere il cuore (una su tutte “The State We’re In” che con un capitombolo alla Motorpsycho e voce affranta alla Billy Corgan ci ricorda il talento per la bella melodia di cui hanno dato prova). Altro esempio di dicotomia è “Preparation For Meltdown” dove a un incedere con chitarre ipnotiche alla Placebo e stati di sospensione alla Muse si alternano esplosioni martellanti prossime al post rock.
“Show A Little Love” che brano è? È troppo dire che per un attimo pare di essere caduti in seno alle braccia dei Depeche Mode, quasi ricalcati pedissequamente persino nel titolo? E “So We Row” il brano di chiusura? Sembra di ascoltare il remix di “Kashmir” dei Led Zeppelin. E così ancora ad oltranza.
Con il precedente “Tightly Unwound” (2008) le melodie malinconiche forti di una cifra personale, avevano fatto presagire uno sviluppo introspettivo complesso ancora tutto da sviscerare. Invece ecco lo stacco inatteso, inopinato… che però scontenta. Come se l’interruzione di corrente ci avesse impedito per sempre di sentire la frase finale di una fascinosa poesia. Per fortuna comunque l’ultima cosa da pensare è che il per sempre sia una categoria vincolante nel mondo miracoloso della musica.
Però allo stato delle cose, parafrasando il titolo dei nostri, se qualcuno manca qui, in questo momento, purtroppo sono proprio i Pineapple Thief.
(Stefania Italiano)
collegamenti su MusiKàl!
The Pineapple Thief – Tightly Unwound