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Parliamoci chiaro. Potrà piacere o non piacere, ma uno sbullonato orgogliosamente “fuori serie” come Alessandro Fiori va considerato, senza troppi timori, per quello che è o rischia di diventare: il punto di intersezione lirica tra Bruno Munari, Toti Scialoja e Robert Wyatt. Una deflagrazione di purissima polvere da sparo patafisica, un arabesco parolibero attorcigliato nella sua poesia nonsense totalmente impenetrabile, scandita su alfabeti e simboli arditissimi che chiedono costantemente all’ascoltatore di liberare la propria immaginazione incatenata dalla stupidità più atrofizzante nel tentativo folle di decifrare (e di lasciarsi decifrare da) quello che la voce del nostro blatera senza requie, come il sacerdote di un oscuro rituale poetico.
Dopo essersi fatto un nome con le imprese gloriose nei Mariposa prima e negli Amore poi (chissà se un giorno il secondo bramato album della band vedrà mai la luce, essendo praticamente finito), ora Alessandro Fiori si riappropria di ciò che più gli appartiene e si presenta in un mirabile viaggio senza ritorno in solitaria che non poteva che intitolarsi “Attento a me stesso”. Al contempo uno nessuno e centomila, all’incrocio di un fantasista funambolico del linguaggio e un Fregoli mutaforma della canzone surreale che è sia attore, sia cantante, sia poeta, sia pittore ma anche di più e di meno di tutto questo messo assieme, Fiori firma il ritratto semiserio di un saltibanco dell’anima perso in madrigaletti psichedelici, nei quali si ritrova tanto la comicità grottesca e crassamente escrementizia di certa letteratura toscana (in pieno registro comico-realistico alla Vernacoliere) quanto il delirante flusso psicoverbale di un allucinato cabaret dada.
Con l’aiuto di vecchi compagni di strada (Alessandro Stefana, l’ubiquo Enrico Gabrielli, Marco Parente, tra gli altri), Fiori, in bilico tra il primo Dalla, Ivan Graziani e Kevin Ayers, macina un gorgo vorticoso di invenzioni narrative, goffi personaggi in fuga da labirintici intermundia provinciali abbozzati con pochi graffi imperfetti di pennino, e giochi di parole bislacchi che triturano il senso della realtà fino a sperderlo in una luce purissima e ineffabile. Ma ciò che, mattone dopo mattone, si va componendo in maniera sempre più distinta è lo sguardo impietoso e disperatamente disilluso di un trapezista sospeso sulla miseria di un presente senza alibi che fagocita nel suo ineluttabile nullismo mercificante le relazioni umane (o quel che ne resta) e la loro verità. In tal senso canzoni come “Lungomare”(tra i momenti più alti), “Idrocarburi” o “2 cowboy per un parcheggio” lasciano poco scampo ai dubbi.
In definitiva Fiori con questo suo “Attento a me stesso” lancia un grido di rabbia e di terrore, percorso dal sospetto che non esistano più lembi di esistenza ancora incontaminati e “puri”, che la banalità imperdonabile del male si annidi ormai come un’infezione inguaribile anche nelle pieghe più riposte del nostro io più segreto, ma a questa deriva di non-senso brutale e annicchilente l’artista contrappone (come un obbligo quasi morale) lo slancio mirabile di un non-senso ancora più fragoroso e vitale: l’urlo squinternato di un’intelligenza imprevedibilmente giocosa e appassionata, senza regole. Del resto: “come puoi leggere il libro del mio cuore senza le dita per tenere il segno/ come puoi rendere decente il mio cuore senza le dita per farci un disegno”. Brividi.
(Francesco Giordani)
collegamenti su Kalporz:
Mariposa – Best Company
Mariposa – Nuotando in un pesce bowl
Mariposa – Proffiti Now