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Onde ingrossate, cupe e purpuree che schiacciano e trascinano come un potere di cui si è in balia. Con quest’oppressione emotiva siamo introdotti nel mondo dei milanesi Miavagadilania, e squassati sulla battigia non ancora boccheggianti riusciamo a capire quanto trasmettere con la musica concetti tanto esatti da essere immagini impresse sia un’arte che pochi si impegnano a raggiungere.
Per quei pochi che accettano l’onere e l’onore di una tale impresa i frutti sono centellinati e raccolti sempre alla stagione stabilita, mai prima mai avventatamente. Il frutto potrà impiegare eoni artistici secolari prima di venire a maturazione, ma quando finiscono tra le mani del raccoglitore producono uno stupore e una gioia mirabili per la perfezione e la levigatezza della forme: quale artista non sacrificherebbe le notti e a volte la vita per un siffatto risultato?
Dai frutti, poi si sa, si giudicherà l’albero… ed è aspettando il tempo del raccolto che, mentre ci aggiriamo per il giardino degli artisti, cerchiamo di individuare l’albero dei Miavagadilania.
Intanto si tratta di un albero di rock ascetico, radici profonde, fusto lungo, grigio, corteccia ruvida ma non crepata, rami espansi, ma portamento un po’ cadente, l’albero di coloro che scavano cunicoli che conducono sempre dall’altra parte della ricerca! Questo è l’albero dei Miavagadilania che in questo primo full lenght dal titolo ansiogeno dimostrano di essere artisti rifinitori, di quelli che possiedono l’arte antica dell’insoddisfazione, maturata durante notti affannose in sala di registrazione.
Il post rock la fa da padrone nelle parti strumentali ma anche le tante influenze ammesse dai Nostri, primi tra tutti i Marlene Kuntz e i Blonde Redhead, che fanno capolino a dare una mano per arrotondare un suono escavatore che ci conduce al consueto luogo nascosto della nostra psiche dove si è tristi senza sapere perché, nostalgici di un luogo che non c’è, felici per un’immagine che racchiude tutto senza sapere cosa sia il tutto. Tutti gli stati d’animo in quel luogo hanno un’immagine e i Miavagadilania la riproducono: “Scintille” ci getta in un mare burrascoso ma con “Nau” l’anima trova pace in una culla che sa di dolore antico; “Notte illune”, una sorella gemella più statica di “Nau”, è un quadro preromantico agitato da aspirazioni indefinite che la voce effettata rende più urgenti, “Fili rossi” è una carezza prolungata contro la desolazione, un’immagine ispirata racchiusa nei versi più riusciti (“Quel che dirai per me sa di miele/biancore del giglio e scintilla di buio”). Però dopo tante prove di talento la titletrack che conclude l’album appare quasi incomprensibile: è una sorta di involucro svuotato di tutte le idee donate agli altri brani, tintinna come il famoso cembalo senza amore, fredda, incolore, banale, forse più a suo agio se collocata in apertura di lavoro. Dico “quasi” perché non posso che leggerci invece la prova di un carattere artistico ancora in divenire.
I frutti di questo giovane albero che promette tanto non sono maturi, è ovvio. Accennavo prima ai versi. Purtroppo qui iniziano le note dolenti. Sono infatti proprio i testi che non fanno quadrare il cerchio: sono forzati, rocamboleschi, oserei dire “stonati”. Nel desiderio di scrivere cose nuove si creano effetti innaturali che stridono e disturbano la metrica, ostacolando l’ascolto di tanta bellezza! “L’equilibrio” per esempio è una profonda meditazione che prende l’abbrivo e si innalza quando la parte cantata cessa; “Nau” delicatamente noir grazie alla voce flebile ed onirica ci permette di viaggiare dentro una tristezza distante perché le parole sono quasi irriconoscibili, e “Metti che la felicità” scarna nella ripetizione del suo verso può insinuarsi gentilmente proprio per merito della sua semplicità.
La voce inoltre se la consideriamo per sè, escludendo il trattamento in fase di mixaggio, arricchisce poco il prezioso tessuto musicale. Sfortunatamente la prima impressione di una voce innodica e potentemente espressiva che ci metterà a dura prova viene delusa molto presto. So che a riguardo, per gli esperti e i cultori, dirò una vera eresia che se non ritrattata mi condurrà al rogo, ma appena Claudio Papa inizia a cantare “Scintille” credo che vivrò le terrificanti e indimenticabili sensazioni provate ascoltando “Galantuomo” di Juri Camisasca! Dura un batter di ciglia e la voce finisce per dilapidare la magnifica aspettativa consumandosi, nei brani seguenti, nel solito effetto nevrotico e fragile di un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, tipico di tanta nostrana musica rock.
Ora dopo ‘sta pizza… io so che l’artista segue la rotta della sua arte, in un discorso interno alle forme che essa possiede, e che non saranno le osservazioni di chiunque non faccia parte della fatica quotidiana di renderla migliore a motivare il cambio di rotta. Volevo solo fotografare il primo germogliare di un bel lavoro che merita ancora parecchie rifiniture, conservare la foto e confrontarla poi con quella del frutto giunto a maturazione. Infatti l’albero cresce, i frutti continuano a maturare e noi speriamo che la stagione buona venga anche per i Miavagadilania. Credo che se lo meritino.
(Stefania Italiano)
7 settembre 2010