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Una forza della natura. Basta appena accostarvi l’orecchio che il nuovo Quentin Harris si rivela subito qualcosa come un’imponente foresta pluviale agitata da venti maestosi che ne scuotono gli alberi monumentali e la lussureggiante vegetazione in un vortice sensuale e inebriante di profumi e di colori. Sono i profumi e i colori di una house che mai si era sentita così rinnovata, che mai aveva raggiunto equilibri così assoluti nel voler gettare sguardi al futuro mantenendo un piede fermo nel passato.
Con “No Politics” le prove tecniche di un suono sbalorditivo che fa subito scuola, la messa a punto e l’innesco di una bomba a orologeria programmata per l’esplosione 2010 quando invece di deflagrare si troverà più propriamente a brillare,come è giusto che sia quando si tratta di diamanti.
Perfetti, preziosi, splendenti.
Dopo tre anni sofferti “Sacrifice” diventa così inchiostro indelebile a marchiare la pelle come un segno sul costato, rituale di abbandono a proclamare la dedizione totale al proprio credo e alla propria arte, plasmata attraverso le trasversalità di uno stile che fonde al meglio il lato soulful con quello più duro, la fisicità del dancefloor con l’ascolto puro e semplice costruendo un ponte ideale che da Detroit raggiunge l’Europa passando attraverso l’adottiva New York fino a forgiare un’altissima forma pop del secolo ventuno.
Da paura le collaborazioni con Drew Vision per il remake della classica “Baby Gets High” così come per la meraviglia della title-track “Sacrifice”; in grande spolvero con Cordell sul r’n’b più scuro di “Why Me?”, addirittura in stato di grazia quando fa la cosa giusta con Inaya Day, ancora un pezzo di prelibati arrangiamenti in produzione (“Do The Right Thing”). Nei magnetismi cromatici della strumentale “Silence” vibra semplicemente un altro picco qualitativo da mozzare il fiato, “Don’t U Worry” è finezza sexy meditata insieme a Georgia Cee, “Give It 2 You” un potente Ultra Naté di lusso, sopraffine tessiture d’archi in disco handclapping tutto un I’ve Got Something To Give di portamento garage che non so se mi spiego. Già presente – come Cordell – nel disco d’esordio, è manco a dirlo ispiratissimo Jason Walker quando (dopo “Circles”) chiude la personale doppietta in nostalgia deep su un piano-Harris che srotola via la solitudine giù giù fin verso casa per poi ripartire (“Home”).
Se ancora non fosse chiaro: una prova sontuosa, di magniloquenza assoluta.
(Antonio Giovinazzo)
8 settembre 2010