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Potete starne certi, molte delle nuove formazioni britanniche che saremo costretti a trattare nei mesi a venire, saranno infallibilmente accomunate dal fatto di recare la parola Manchester nella propria carte d’identità, subito dopo la dicitura “residente a”. Senza stare a rinvangare per l’ennesima volta il nutritissimo medagliere cittadino, che dalla rivoluzione concettuale di un marchio come la Factory dell’Andy Wahrol albionico Tony Wilson arriva fino all’apoteosi hooligana degli Oasis, passando attraverso l’epopea edonista del madchester sound così come attraverso l’esistenzialismo neo-sensibilista degli Smiths, si può stare comunque certi che, esistendo una geografia politica del rock (materia ancora da inventare), Manchester ne sarebbe senza il minimo dubbio una della capitali amministrative di maggior blasone.
Dopo i fasti dei Delphic, in bilico tra palpitanti neworderismi d’accatto e algide serigrafie elettropop, e dopo le decostruzioni math-funk degli Everything Everything (freschissimi di uscita), e in attesa degli Egyptian Hip-Hop così come dei misteriosissimi WU LYF, ecco dunque gli Hurts piantare un bandierina di velluto sulla sommità delle programmazioni radiofoniche europee. Il duo, costituito dal cantante Theo Hutchcraft e dal polistrumentista Adam Anderson, gioca una partita a carte scoperte, senza troppi pudori, confezionando un lavoro di puro synth-pop in quintessenza. Se siete allergici al romanticismo al polietilene non riciclabile di Alphaville, Erasure, Soft Cell o Pet Shop Boys, meglio dunque restarsene rigorosamente alla larga.
Tutti gli altri troveranno invece un gruppo dotato di una fantasia non certo sconfinata ma dalle grandi doti manieriste. Il pop azzimato e scopertamente fomalista del duo (ascoltate la solenne apertura “Silver Lining” per meglio capire), col suo fare aristocratico e leccato, sa infatti proporre motivetti art-deco (ad esempio i due singoli “Better Than Life” e “Wonderfull Life”) improntati ad un generale estetismo Vogue-patinato, fungibile e liscio come un magazine usa e getta in cui l’iconografia pura e bidimensionale delle foto scaccia via il contenuto mediato delle (inutili) parole. In bilico tra sospirosa (e stilizzata) belle epoque, un vittorianesimo estenuato di forme e concetti e il blando dandismo di yuppie in formato Versace, il gruppo, pezzo dopo pezzo, fa della svenevolezza una categoria del bello (ascoltate “Water” e la ghost track tendente al sublime pacchiano che la fa da pandan) o forse addirittura una precisa ideologia compositiva, sullo sfondo di un’identificazione a tratti vertiginosa con l’epica del frivolo anni Ottanta (“Stay” o “Illuminated” vanno in questa precisa direzione).
Le canzoni di questi Hurts, inamidate, nette e geometriche (ma sempre alonate da uno sbaffo di eyeliner di umido patetismo lirico a comando) si lasciano accarezzare e scoprire, nel loro spleen leggiadro e piacevolmente artefatto, come un amaro calice di compiaciuto narcisismo salottiero da sorseggiare rileggendo Proust o i diari di Nijinskij.
(Francesco Giordani)
Collegamenti su Kalporz:
Pet Shop Boys – Release
26 ottobre 2010