Share This Article
Perché hanno scelto quella inutile canzone per rappresentare il continente nero ai recenti mondiali calcistici? Domanda stupida che probabilmente si risponde da sola, ma nelle note del terzo lavoro The Budos Band ho sentito il profumo e visto i colori dell’Africa in tutte le sue forme più ancestrali. Il combo di musicisti in questione viene da Brooklyn e propone una miscela strumentale di afro-funk iniettato di jazz che si regge sui fiati di eccezionali musicisti resi tali da una incessante attività live. Dopo The Budos Band e II, ecco III, edito sempre da Daptone Records (laboratorio musicale impegnato da tempo a riproporre in chiave attuale tutta la musica nera) che nasce dopo solo 2 giorni di sessioni in studio. Ed è un gran bel sentire, perché non è unicamente musica, ma una rappresentazione festante ed evocativa di luoghi che vorremmo vivere e possedere. La forza del disco risiede nella compattezza delle trami musicali infettate dall’organo di Mike Deller, dalla orgiastica convivenza delle trombe festanti di David Guy e Andrew Greene e dallo spazio rilegato al sax tenore di Cochemea Gastelum; l’Africa musicale di Fela Kuti si erge in tutto il suo splendore, accoglie a se il funky di Roy Ayers, la forza espressiva di James Brown e mischia ritmi metropolitani e primordiali donando al tutto un aurea cinematografica Tarantiniana. Stanchi quindi del culetto waka/waka, ci possiamo immergere nella spirituale danza ossessiva di Dudos Dirge e in quella briosa di Unbroken, Unshaven, nella malinconia che evoca campi di cotone al sole di River Serpentine e Nature’s Wrath fino all’energia rock di Black Venom e alla cover Reppirt Yad (Day Tripper al contrario) dei Beatles. Godiamoci il groove The Budos Band fino a quando Quentin Tarantino non se ne accorgerà. Poi ne gioiremo tutti assieme, seduti sulle poltrone a guardar scorrere immagini colorate. Speriamo senza essere offuscati da sederi danzanti.
(Nicola Guerra)