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George Lewis Jr. sembra uno scarto di magazzino anni ’70. Mulatto, kitsch dentro, con baffetto da gestore di un mini-market off-licence. Per non parlare di un gusto estetico da disco-glam di tre decenni fa e passa. Vedi inguardabile copertina, unica pecca di questo esordio.
E invece un po’ a sorpresa prova a scippare lo scettro del revival wave dalla salda presa dei cugini britannici. Ultimi nomi XX e Wild Beasts, assimilabili soprattutto i secondi al suo progetto Twin Shadow, la vecchia Albione lustrini indie a parte ha continuato a regnare nella riesumazione degli anni ’80. Mentre il Nord America non riesce a scollarsi di dosso quel legame affettivo con le chitarre nella loro declinazione più tradizionale. Ebbene se l’Inghilterra chiama, Brooklyn non può fare a meno di rispondere, con qualche anno di ritardo rispetto ai must del synth-pop nordamericano, i canadesi Junior Boys.
Ciò che viene fuori dall’esordio di questo ventiseienne che ha composto tutto in camere d’albergo manifestando una confidenza con il songwriting da veterano, è un piccolo gioiello. L’ennesimo dei tempi recenti dall’ormai ex-borough dannato di New York diventato in pochi anni l’epicentro del meglio della musica indipendente contemporanea. Senza banalizzare troppo sul fatto che la 4AD abbia nuovamente centrato il bersaglio scovando un residuato bellico anni ’80, Lewis dà veramente l’idea di aver divorato e metabolizzato con successo quintali di Young Marble Giants, Smiths, Echo & The Bunnymen. Ma non è tutto qui. Ciò che emerge è un’attualità del suono (soliti inevitabili ringraziamenti al contributo di Chris Taylor dei Grizzly Bear) e una sensibilità compositiva da lasciare a bocca aperta. “Tyrant Destroyed”, downtempo e sostenuta fa da prologo riflessivo chill-wave.
Il resto è un’alternarsi di omaggi anni ’80 che non si vergognano delle ritmiche più sostenute e sinuose. “At My House” sfiora il funk così come “Shooting Holes” sbatte l’intimismo di Lewis Jr. in reminiscenze da Studio 54. Le nervose chitarre-tastiera alla Talking Heads ripresi anche nei momenti vocalmente meno McCulloch. “When We’re Dancing” dimostra che non è solo revival. Twin Shadow o Lewis che dir si voglia ha un talento cristallino. Il brano uno di quelli destinati a segnare il 2010 con quella chitarra distorta che esplode come l’interferenza pre-chorus di “Creep” dei Radiohead . Un brano come “I Can’t Wait” avrebbe fatto comodo agli Arcade Fire, almeno negli intenti ispirati ai Depeche Mode dell’ultimo album.
La voce viscerale e a tratti aliena, a tratti black fa il resto. Il filo rosso è nell’emotività delle tracce nell’apparentemente fredda sequenza di panoramiche wave che spesso sconfinano in un synth-pop d’altri tempi. Farsi pure un’idea con “Tether Beat o “Yellow Balloon”, improbabile connessione tra Sting e Pop Group. Per la non rara deviazione verso territori cupi e a tratti industriali nella loro dissonanza (“Castles In The Snow”). Non risultare mai kitsch e anzi elegante e sottile nei suoi viaggi metropolitani ai limiti della suburbia da b-movie è l’impresa di successo di Twin Shadow. Anzi in “Slow”, Lewis Jr., si appropria di un gelido pathos inglese da inguaribile consumatore di Cure e Smiths. Stridori molto Ultravox aprono invece la titletrack, degna chiusura di quarantaminuti da raffinata scatola dei ricordi degli anni ’80. Che poi Lewis Jr. sia nato nemmeno tre decenni fa resta un mistero inspiegabile. O forse la risposta è più semplicemente nella sua data di nascita: il 1984. L’anno in cui si pensava (e in cui si pensa tuttora) che la new wave avesse terminato la sua incredibile parabola ascendente.
(Piero Merola)
Collegamenti su Kalporz:
The Smiths – The Smiths
Grizzly Bear – Veckatimest
13 ottobre 2010