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Highway 61, lungo è il percorso che ci porta da Memphis a New Orleans, densa l’aria che respiriamo costeggiando il Mississippi. Entriamo sommessamente in uno dei piccoli locali che costeggiano le rive: la sala è pregna di whiskey, Tom Waits fuma una sigaretta in compagnia del nipote acquisito Mark Lanegan, alla radio passano ininterrottamente pezzi di Johnny Cash, l’atmosfera è paradossalmente rassicurante.
Questa è solo una delle molteplici immagini che affiorano durante l’ascolto di “We must stop you”, prima uscita discografica dei salernitani Maybe I’m…, a tre anni di distanza dal loro demo “Satan’s holding a little room for me…”
Il duo composto da Ferdinando Ferro e Antonio Marino, coadiuvato da Clara Foglia in veste live, ha documenti italiani ma cuore pulsante ancorato a radici prettamente folk-blues americane.
Definizione che per certi punti di vista può stare abbastanza stretta ai nostri: durante l’ascolto del disco affiorano molteplici richiami sonori, spesso e volentieri all’interno dello stesso pezzo.
Prendiamo, ad esempio, il pezzo che da’ il titolo alla loro ultima fatica: ritmi dal sapore trans-africano molto cari ai Dirtmusic, vocalizzi di Waitsiana memoria e una lunga coda psichedelica che ci trasporta direttamente all’interno dell’UFO Club. Prendete la sommatoria di questi rimandi, combinatela a “Kuntz” dei Butthole Surfers e fatela risuonare interamente ai Kaleidoscope (quelli americani, per rimanere in tema).
Le sorprese non sono certo finite: “Into pieces…” sembra un pezzo di Cash in chiave lo-fi, “A secret lake” un brano soffuso, oscuro, che richiama i western musicati da Morricone.
“Carpet and drainage” è l’unica canzone riconducibile ad un’altra realtà italiana da esportazione, ovvero Samuel Katarro.
Mezz’ora di ottima musica, mezz’ora di trasporto, emozioni, mezz’ora per otto piccoli gioiellini che non stonano tra “Whiskey for the holy ghost” e “Bone Machine”.
(Matteo Ghilardi)
03 novembre 2010