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Da seguaci della prima ora dei Maximo Park non potevamo certo esimerci dal presenziare la tappa nell’urbe di Paul Smith, prode leader del nostro amatissimo quartetto britannico (Newcastle), appena tornato alla ribalta con un debutto in solitaria non certo memorabile, ma comunque buono per giustificare un mini-tour in punta di piedi dai toni piacevolmente intimisti .
Un certo ritardo ci porta ad entrare in sala con l’opening act Gravenhurst già nel pieno della sua scarna esibizione. Gravenhurst (al secolo Mick Talbot, da Bristol), trasforma i suoi trascorsi da epistemologo e studioso di filosofia della mente in un’esibizione in pillola che lo vede sul palco da solo, attrezzato unicamente di una voce soave e flautata e di una Gibson collegata ad una pedaliera riccamente assortita di effetti e delay. A sentirlo sono otto persone di numero e da buon inglese Talbot non perde occasione di ironizzare sulla circostanza, chiedendo agli avventori se abbiano voglia di ascoltare una cover dei Depeche Mode, che nel frattempo occhieggiano dagli schermi piatti appesi alle pareti come tele, nei loro tour trionfali immortalati in dvd ad alta definizione.
Occhialuto, in camicia a quadrettoni larghi e pantaloni scampanati da orgoglioso paesano, Talbot esegue vecchie composizioni (tra cui un’antichissima “Black Holes In The Sand” da togliere il fiato) e un pezzo nuovo, che restituiscono tutta la misura di questo eccezionale folksinger postmoderno del profondo ovest britannico, capace come pochi altri di utilizzare scampoli della tradizione più arcaica per costruire algidi paesaggi mentali (in bilico tra Hood, Flying Saucer Attack e Third Eye Foundation, non per niente il signore pubblica per Warp), in cui a dominare è la pura astrazione del concetto e la tensione contemplativa di una preghiera concentrata fin quasi alla vertigine, ascetica e monacale come un ipnotico canto tibetano dell’anima in grado di sfiorare a tratti la luce bianca dell’essenza.
Paul Smith si presenta arzillo e saltellante, vestito come un drugo benevolo nello sguardo, sormontato dall’immancabile borsalino a tesa corta. Lo accompagnano un simpatico batterista e due timide e graziose ragazze al basso e alla seconda chitarra, sistemate ai lati come due guardiane e custodi. Loquace, affilato, spiritoso e con una lama di intelligenza vivace che gli lampeggia nelle pupille azzurre come una promessa, il magnetico Paul (appellato affettuosamente dai supporters romani, che per la prima volta possono goderselo dal vivo, “Paolino” o addirittura “Massimo”) ripropone i pezzi “quietly rock” (parole sue) dell’album “Margins”, un piccolo diario casalingo di schizzi musicali a matita (non ripassati a china) e fantasie da infilare “nella tasca di un qualunque mattino”, dando prova di discrete qualità sia come autore in proprio che come chitarrista.
Vengono in mente le raffinate polaroid di cui il nostro ha recentemente pubblicato un’elegante raccolta (“Thinking In Pictures”, in vendita al banchetto del merchandising) mentre scorrono, in un’equilibrata alternanza di lento e fortissimo, “”North Atlantic Drift”, “Our Lady Of Lourdes” o “This Heat”, con le loro combinazioni di paesaggi, volti, momenti, frasi, colori e, soprattutto, luci sempre uniche e particolari. Il meglio arriva però nel bis finale quando Smith, quasi per sdebitarsi della calorosa e gentile accoglienza, imbraccia la Fender e ritaglia un medley fluente nel quale si aggrovigliano le sagome di “Tanned”, “By The Monument” e “Apply Some Pressure” con il suo distico martellante “What Happens When You Loose Everything?/ You Just Start Again./ You Just Start All Over Again.” che alle nostre orecchie non può non risuonare le parole del refrain “I said rip it up and rip it up and rip it up and rip it up and rip it up and start again” degli Orange Juice, scritto nel 1983.
Intercettiamo il nostro uomo a fine concerto, intento a parlare della “volpe argentata” Fabrizio Ravanelli e del Middlesbrough, una delle sue innumerevoli passioni (è infatti stato un calciatore dilettante prima di iniziare a suonare professionalmente e poco prima del concerto era mimetizzato tra il popolo romanista a studiarsi con attenzione la partita pareggiata contro la Juventus). Ne approfittiamo per strappare un autografo e porgere un ringraziamento silenzioso, sotto forma di pacca sulla spalla, perchè i Maximo Park, come tanti altri gruppi inglesi, continuano a salvarci la vita con una semplice canzone e forse, sotto sotto, questo lo sa anche lui.
(Francesco Giordani)
Collegamenti su Kalporz:
Maximo Park – Our Earthly Pleasures
Gravenhurst – The Western Lands
17 novembre 2010