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Illinois, Chicago. Un Hussein alla Casa Bianca e un Sufjan nell’immaginario collettivo degli anni Zero. Su Hussein è già stato detto abbastanza. Sufjan è un nome iraniano, d’antica derivazione persiana (Abu Sufjan, storico avversario di Maometto) e poco conta che i genitori del geniale compositore di Detroit l’abbiano chiamato così per palesare la loro appartenenza a una strana setta nata in Indonesia. Dove del resto Obama ha vissuto dai sei ai dieci anni. Sufjan, molto più fortunato, a dieci anni frequentava un Master of Fine Arts a New York City. Vite per nulla parallele nell’Illinois di nuovo al centro degli States e del mondo. Anche perché nel 2000, quando Stevens veniva fuori con il promettente “A Sun Came”, Obama conosceva il sapore della sconfitta nelle primarie dell’Illinois. 2005 come anello di congiunzione tra i due. L’uno inizia l’ascesa verso la candidatura presidenziale, l’altro con “Illinois” sconvolge la scena indipendente statunitense. Dopo “Michigan” nessuno credeva al progetto, a essere buoni ardito, di scrivere un album per ogni stato degli USA. E invece un album fantastico nella sua complessità con “Chicago” tra gli indiscussi inni generazioni degli anni Zero. In due contesti diversi, Hussein e Sufjan, uniscono e accontentano tutti. O sembravano unire visti i recenti sviluppi. Lo stesso Sufjan Stevens che qualcuno ha mal sopportato per l’innata megalomania e per i risvolti solenni da cristianità a metà strada tra vera spiritualità e risposta alla generazione dei social network, ha deluso chi lo vedeva come il messia del nuovo songwriting americano. Il Fifty-States project? Per sua stessa ammissione una trovata pubblicitaria. Il folk? Non una stretta necessità. Catastrofe? Tradimento? Rivolte in camicie a quadri? Niente di tutto ciò. Almeno per ora. La sua anarchia espressiva barocca che pare quasi una contraddizione in termini ha trovato invece una nuova metamorfosi. Figlia di “Enjoy Your Rabbit” del 2001, raccolta di schizzi elettronici essenziali e stilizzati che sembrano lontani anni luce dalla prolissa vena compositiva del cantante e dispostico polistrumentista, autore di “Michigan”, il già citato best seller “Illinois” o degli ambiziosi “Songs For Christmas” e “BQE”, progetto visual-orchestrale ispirato alla sordida linea Brooklyn-Queens.
Dopo il cameo nell’avvolgente “Afraid Of Everyone” degli ormai concittadini The National (Sufjan vive neanche a dirlo a Brooklyn), traccia dell’ottimo “High Violet” di quest’anno, un po’ a sorpresa è uscito l’EP “All Delighted People”. EP si fa per dire. Cinquantanove minuti alla Sufjan, tra cori, sbornie orchestrali, tinte fiabesche e mancanza di senso del limite.
E poi finalmente l’atteso ritorno al LP con “The Age Of Adz”, dopo cinque anni di confusa emorragia creativa. Reduce da un’infezione al sistema nervoso, l’instabilità fisica ed emotiva dell’ormai trentacinquenne cantautore si riversa di getto in un album a dir poco sorprendente. La rassicurante catarsi tra canto bucolico e opera di “Illinois” lascia spazio a ossessione e isterismo che pervadono l’album. Il ritorno di Sufjan all’elettronica, comunque minimale in linea coi suoi esperimenti di ormai dieci anni fa, e mai primaria rispetto alla composizione di melodie e voce sempre ancorata al suo stile inimitabili, funziona.
Tralasciando i venticinque minuti finali di delirio d’onnipotenza nel suo stile, l’epica “Impossible Soul” con Shara Worden (My Brightest Diamond), Sufjan nelle altre dieci tracce non va mai oltre gli otto minuti. Il che lascia a bocca aperta, conoscendolo. Riesce a dire tutto senza complicarsi troppo le cose. La proclamata rinuncia a banjo, trombe e pifferi vari ha dato nuova linfa nel difficile tentativo di dare un seguito all’irripetibile “Illinois”. Quando la leggiadra “Futile Devices” farebbe pensare a una raccolta di essenziali folk-ballad in delay, “Too Much” schianta l’ascolto contro un muro. Sembra scritta dagli Animal Collective, ma il tocco di Sufjan è evidente. Sufjan va in città e annega nell’horror vacui. Le sue turbe mentali si personificano in testi che parlano di allucinazioni, tendenze suicide e pensieri apocalittici. Si concretizzano in cupi groove di basso e basi, dissonanze, sbalzi tonali che scivolano in abissi. Le sue peculiari orchestrazioni altisonanti e ariose sono sempre strozzate da qualcosa. Sufjan si avvicina alle atmosfere senza tempo di una sua allieva e turnista, St.Vincent, la ragazza prodigio della East Coast che come pochi ha saputo coniugare la freddezza delle macchine con il calore classica di archi e fiati.
La titletrack, “The Age of Adz” è una cappella sistina dark. A tratti la voce di Sufjan ha nella voce un che di teatrale assimilabile a Bono. Con l’unica differenza che gli U2 non scrivono brani così originali da vent’anni e passa. Stevens ne scrive uno dopo l’altro. In questo tunnel esistenziale senza uscita, il menestrello del Michigan, non ha perso vena e qualità. Nonostante le basi lo-fi e tastieracce che nessuno avrebbe mai immaginato in un disco dell’autore di “Illinois”.
I panorami rurali sono ormai trasfigurati.La rassicurante campagna è diventata un incubo. Gli edulcorati passaggi disneyani sembrano ingurgitati da un’epopea da fumetto splatter. Non a caso la copertina rimanda al paranoico Royal Robertson, disegnatore eroico sci-fi malato di schizofrenia. “I Walked” e “Get Real Get Right” evidenziano imprevedibili risvolti electro-pop. La sublime “I Want To Be Well” non starebbe male propriamente remixata e depurata dei lampi orchestrali sembra una soundtrack cyborg. “Now That I’m Older” non è solo l’esplicito superamento del suo mondo naif da periferia americana. Vi emerge un’inaspettata dissociazione in armonizzazioni vocali multistrato figlie dei Beach Boys. Unico brano alla maniera del vecchio Sufjan. Perché “Bad Communication” avrà pure la stessa ricerca vocale, ma ritornano gli arrangiamenti da musicassetta usurata. “Vesuvius” è l’ideale compendio tra opera e musica da videogame. Una bestemmia, ma Sufjan dà classe ed eleganza alle sonorità della recente scena impietosamente definita ipnagogica. “All For Myself” è roba da fratellastro di Bjork. Desolante, stridente, spietata. La solitudine di Sufjan degenera e si esorcizza da sé in maniera ciclica. Tra i diversi brani e all’interno dei brani stessi.
Solita storia insomma. Il male interiore del compositore nella musica contemporanea giova in maniera inversamente proporzionale all’ascoltatore. Un grazie all’Adz e le psicosi per aver dato una mano a uno dei migliori talenti degli ultimi anni a trovare nello squilibrio l’equilibrio, nella deconcettualizzazione un nuovo concept, nella destrutturazione la costruzione di un capolavoro sconvolgente. Salutando per sempre l’Illinois e volando verso l’arida prateria degli inquieti songwriter americani.
(Piero Merola)
Collegamenti su Kalporz:
Sufjan Stevens – The Avalanche
Sufjan Stevens – Illinois
News – Il nuovo album di Sufjan Stevens (26.08.2010)
23 novembre 2010