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Districarsi in una rassegna ampia come il Torino Film Festival, specie quando si è tanto fortunati da avere tutti i giorni e tutto il giorno a propria disposizione, impone la capacità di costruirsi un programma su misura. Un’arte affascinante ma difficile da perfezionare, un sapiente gioco di incastri per venire a capo dello spazio-tempo del festival. Un gioco dentro il gioco, e non è raro che l’ansia per le tabelle di marcia prenda il sopravvento sul piacere della visione. Riconosci i festivalieri professionisti, quando li sorprendi nel buio della sala mentre stropicciano il programma, illuminati dallo schermo del cellulare: il film che a forza di calcoli si sono pianificati per quel momento della giornata non è ancora finito e loro già vanno a caccia del prossimo. Una “scimmia” che ti si aggrappa e non ti molla più.
Una volta esclusi i criteri fisiologici dell’interesse personale (quello che voglio vedere) e delle capacità psicofisiche (quello che riesco a vedere), il provetto cinephile gioca di fino e copre il suo percorso di altri ostacoli: si può scegliere di dedicare le proprie sedute con discrimine geografico (“solo i canadesi”, “solo gli americani”, “solo gli europei”, “solo – Dio ci scampi – gli italiani”), di genere (“solo documentari”, “solo romantici”, “solo horror” – quest’anno con la sezione Rapporto confidenziale appositamente dedicata), di data (“solo nuovi” o “solo vecchi” – le retrospettive su John Huston e ) di distribuzione (“solo le anteprime” o “solo quelli che non arriveranno mai in Italia”). Da kalpuorzi ci siamo dati anche noi la nostra esclusiva e siamo andati a scandagliare i palinsesti, fiutando ovunque ci fosse ombra di musica, rock e affini. Quel che segue è una selezione di quanto la nostra ricerca ha portato a galla. Armatevi di carta, penna e spirito pirata perché molta di questa roba non uscirà nei circuiti ufficiali prima di qualche era geologica.
This movie is broken di Bruce Mc Donald (Canada): Rolling stones prima, Radiohead e Arcade Fire poi. E’ tempo di film-concerti eterodossi e Bruce McDonald non poteva mancare all’appello. Il regista col cappello da cowboy fece la sua comparsa tre edizioni orsono quando presentò un film interamente girato in split screen che si chiamava Tracey Fragments. Alla terza prova McDonald riconferma la passione per le pellicole spezzatino: il suo nuovo film è “broken” non soltanto perché ci fanno la loro porca figura i Broken Social Scene, ma anche perché saltabecca continuamente dalle immagini di un loro concerto a quelle tratte da una storia d’amore. Proprio come Jackie e Judy “came up to New York. Just to see the Ramones”, Bruno e Caroline consumano la loro storia di un giorno prima, dopo e durante un concerto dei BSS. Che con immagini e liveset praticamente completo fanno da accompagnamento ai modesti patemi d’animo dei due piccioncini. Aria da indie per fighette e un flirt omo buttato un po’ lì che fa tanto cool. La musica dei canadesi poi, è così duttile e bella che sta bene su tutto, anche su un limone occasionale davanti ai cessi pubblici. Certo che però così è un po’ sprecata.
Suck di Rob Stefaniuk (Canada): il film cazzeggio che diventa subito cult. Mediamente ce n’è uno nascosto in ogni edizione del festival, e in questo caso il cult viaggia addirittura su doppio binario. Perché Suck è una parodia del genere horror e della mitologia rock assieme. Ad una band paradossalmente battezzata Winners “vampirizzano” l’affascinante bassista, con conseguente esplosione di successo e qualche sanguinoso intoppo. Spiccano i cammeo di alcuni cadaveri eccellenti: Alice Cooper, naturalmente a suo agio nei panni del caronte di turno, Iggy Pop proprietario di una sala d’incisioni, e soprattutto un eccezionale Moby in versione metallara, poi sbranato dalla bella draculessa. Aggiungeteci un Henry Rollins nella parte di un malcapitato disc jockey e l’atipico Van Helsing di Malcom Mc Dowell e vi sarete fatti un’idea del tutto. Da qui in poi potremmo produrre in interpretazioni varie: sul mercato che “succhia sangue” a chi fa musica, sulla maledizione del successo che uccide le rockband, o (versione avanzata dello stesso regista Stefaniuk, anche attore e songwriter) sul vampirismo come metafora della tossicodipendenza. Potremmo ma non lo faremo. Non qui perlomeno. Perché questo è il film cazzeggio del festival e va bene goderselo così com’è. Dategli la caccia.
White Irish Drinkers di John Gray (UK): La vita di Brian Leary, creativo generico (dipinge e lavora in un teatro) e troppo sensibile per la famiglia di provenienza. Che come tutte le famiglie irlandesi che assurgono agli onori del grande schermo si compone nell’ordine di: padre ubriaco, madre disperata e fratellone manesco. Il timido giovane s’innamorerà di una fanciulla difficile ma dal cuore d’oro e sperando intanto di importare nel suo paesello i Rolling Stones, per una notte soltanto. Quella dell’angusta vita di provincia e della musica come via di fuga è una storia vecchia quasi come Jagger e Richards. Che, a proposito, si fanno aspettare per un’ora e mezza ma non si vedono mai: un po’ come il film.
Bus Palladium di Christopher Thompson (Francia): per essere in Francia siamo in Francia, e su questo non ci piove. Non è tanto chiara l’epoca, casomai: sembrerebbero i settanta dall’insistenza con cui si spinge sui nomi da Pantheon (Ray Davies, David Bowie…) salvo poi sentir parlare un po’ prematuramente di “morte del rock”. Ad ogni modo anche qui c’è una femme fatale che, giura, assolutamente non è una groupie: soltanto che poi finisce nel letto sia del cantante che del chitarrista, per poi piantarli in asso per una star un po’ più luccicosa. E allora i soliti discorsi da “chi dice donna dice danno”, di amicizia fraterna maschile, di buchi e perdizione. Il film migliora mano a mano che si allontana dal racconto musicale puro. E questa strana convivenza tra eroina e torta della nonna, di prove in cantina e pailettes internazionali rende la rappresentazione della vita del musicista più attuale di quanto non sembri a prima vista.
Michael NYman with a Movie Camera di Michael Nyman (USA): il titolo dice tutto. O quasi. Il celebre compositore minimalista trasferisce la sua arte dietro l’obiettivo: anche se si maneggia una camera digitale, il riferimento va a “L’uomo con la macchina da presa”, di Dziga Vertov. Stando alle cartelle stampa, fu Max Purgh a convincere Nyman che le riprese raccolte nel suo database personale nel corso degli anni fossero curiosamente vicine al materiale che componeva il capolavoro sovietico. Pertanto Nyman si è impegnato a “doppiarlo”, componendo prima una colonna sonora apposita e poi un …remake della pellicola del ‘24. Gli intenti sono suggestivi, i risultati non così brillanti, a partire dalle didascalie che introducono la visione: la dichiarazione di voler rifondare un linguaggio cinematografico che sottragga totalmente dal teatro e dalla letteratura, a quasi un secolo di distanza dall’originale, suona un po’ boriosa. Belle orchestrazioni.
Requiem for Detroit? di Julien Temple (UK): un altro abitudinario del festival. Già presente con Joe strummer: the future is unwritten nel 2007 e con Oil City Confidential l’anno passato, l’inventore del punk cinematografico questa volte sposta l’accento dal musicale al sociale. Uno sfondo da sempre presente nei suoi rockumentari e che stavolta prende forma compiuta. Si studia la Detroit delle catene di montaggio, l’ascesa e la caduta della capitale dell’industria automobilistica americana in un contrappunto di immagini, volti e parole che spesso fanno a pugni fra di loro. Il materiale, al solito, è ricchissimo e trattato con enorme intelligenza: tra gli intervistati figurano anche il poeta John Sinclair e Martha Reeves delle Vandellas. Temple non resiste alla tentazione di buttare nel mucchio anche un paio di cenni alle sue fisse musicali: brevi schegge di MC5 e Stooges a rappresentare i subbugli nello stomaco metropolitano. Naturalmente si parla anche dell’hip hop della Motown Records che, come molte delle grandi invenzioni in quei di Detroit, è figlia della mente dei un operaio: Berrie Gordy. Un’intera città costruita sul modello d’efficienza della catena di montaggio: finché l’impero non crolla e Detroit diviene la prima testimone di una possibile vita postindustriale. Un bel monito per una civiltà capitalistica in crisi. Il punk, in fin dei conti, non è nato in una situazione tanto differenti da questa.
Miglior colonna sonora: se un premio del genere esistesse, al Tff se lo sarebbero conteso perlomeno in due. Jack goes Boating è la delicata commedia che segna l’esordio alla regia del premio oscar Philip Seymour Hoffmann, con apprezzato companatico di Fleet Foxes e Grizzly Bear. E poi Small town murder songs, un “noir esistenziale” canadese che nella musica ci nasce e vive: perché Ed Glass Donnelly ha dichiarato di aver preso ispirazione dal disco “Small Town Murder Scene” dei FemBots e perché, durante le lavorazione, ha trovato man forte nel vigoroso pop gospel dei conterranei Bruce Peninsula. Una chicca da scoprire.
Rimasti Fuori Per i criteri fisiologici che si invocavano all’inizio, non abbiamo potuto prendere visione di tutte le pellicole potenzialmente interessanti. Tra gli esclusi per mancanza di obiquità, Las Marimbas del Infierno (vincitore del Premio Cipputi per l’attenzione ai temi del lavoro) e Soulboy (sorta di billy Elliott a suon di Northern Soul…). Per carenza di interesse, invece, siamo venuti meno ai doveri di cronaca con Burlesque: musical con Cher e l’Aguilera in autoreggente e ugola spiegata. Provateci voi, se ce la fate.
(Simone Dotto)
11 dicembre 2010