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Quando ero giovane e facile a fascinazioni pseudo-esoteriche, un amico mi mise tra le mani un cristallo di rocca, una qualità alquanto volgare di quarzo, dall’aspetto simile al vetro, dicendomi di avermi consegnato una pietra molto apotropaica, che mi avrebbe protetto dal male, avvicinato alla mia essenza e stronzate del genere. Naturalmente quella pietra non migliorò in nulla la mia vita, né rivelò sopite energie misteriche, ma ricordo stranamente la sensazione fisica che provai tenendola nel palmo: quel cristallo così ottuso e morto, mi face sentire parte del mondo, di un mondo vecchio e insensato, più esattamente mi ricordò di essere una cosa tra le cose. E, vi dirò, quella sensazione non mi dispiacque affatto, anche se mi venne naturale buttare quel pezzettino di quarzo trasparente in un cassetto e di chiudere, appena possibile, la mia stagione di empatia con i minerali. Ed è a questa la prima cosa cui ho pensato quando ho letto il titolo del nuovo album dei Bachi da Pietra: alla strana e indifferente natura di cui siamo fatti, tanto simile a quel quarzo, così essenziale e necessaria, così fredda e senza senso. Dal 2005 i Bachi da Pietra, duo delle meraviglie underground composto da Bruno Dorella (ex Wolfango, ancora Ronin e terrorista sonico negli OvO) e Giovanni Succi (ex Madrigali Magri), producono la loro musica viscerale e affascinante, in tutti i sensi “materiale”, coscientemente scarna e analogica, fatta di tamburi, strumenti a corde elettrificate, rumori e parole, declamate o sputate, come rifiuti di poesia. In questo quarto album rivive ancora l’essenzialità di un blues senza tempo, unitamente alla sincerità compositiva ed estetica della canzone, assemblata con l’arte creativa dell’uomo che lavora la roccia, scheggiandola o levigandola, per creare armi, utensili, monili o suppellettili splendidamente inutili. Qui si lavora col quarzo, materiale assolutamente terrestre e, insieme, storicamente simbolico e si produce magia di realtà. Ed è, quindi, un folk ammalato e sporco a imporsi come ragione poetica del lavoro. Un folk ora satanico (“Non è Vero Quel Che Dicono”), ora postatomico (“Zuppe di Pietre”) e poi paraculo o goliardico (il mantra sessuale di “Fine Pena”), dove sarcasmo e nichilismo colorano con forti chiaroscuri il senso di suoni e liriche, pensieri minimalisti agiti nella logica dell’apparenza di un essere nascosto ed evidente, potente e insieme assente. I testi di Succi, ormai, manifestano la forza delle verità poetiche di una coscienza volutamente antiletteraria e faranno morire d’invidia i Massimo Volume e qualche romanziere dalla cultura minimumfaxiana. E più sembrano buttati lì con ingenuità o indifferenza, semi-cantanti o semi-recitati con divertita serietà, più risplendono di senso e accarezzano l’universale. Ci sorprende, appunto, il continuum d’ispirazione che persevera nel duo, qui alle prese con sistemazioni armoniche e coscienziose sperimentazioni volte alla manipolazione di vecchi blues, alla corruzione di novità portisheadiane e con citazioni hard-soul (in “Orologeria” il duo campiona quasi dal vivo un vecchio brano di Isaac Hayes), il tutto materializzato in una forma pura che realizza l’assurdità della contraddizione. Perché è nella contraddizione che funzionano le musiche dei Bachi, così come Succi declama nel manifesto “Pietra della Gogna”, dove l’indefinibile è evocato e interrogato, come quell’essere indisponibile che “ci nasce ci uccide\ cancella riscrive\ infilza e sorride\ ci dice ci tace\ ci fa schifo ci piace\ espelle introduce\ lacera cuce\ chissà quando e come\ e se questo porta un nome”. Il drumming analogico-industriale di Dorella ben sostiene il rap esistenzialista di brani oscuri come l’asciutta “Bignami” o la luddista “Dragamine”, aggiungendo accenti d’insofferente disagio o di paranoica marzialità alla linea monotona o dolente delle melodie. In “Niente Come la Pelle” la musica si fa sensuale e strisciante, ossessivamente psichedelica, accompagnando parole e armonici di chimica ispirazione concreta: “Che non sai se di un dopo o di un non ancora\ i corpi si leggono al tatto\ nel sempre di un’ora\ che ha tempo e non mente e non attende niente”. L’episodio strumentale “Muta” contiene riflessi bucolici e malinconici, un’essenza misteriosa e insieme classica, impreziosita del lavoro tecnico e corrosivo di Ivan Rossi. Memorie dal sottosuolo inquinato e avvelenato da rifiuti tossici e indegradabili riaffiorano come magma lento e pseudo-industriale in “Pietra di Pane”. La superficie è “lontana”, perché il gruppo preferisce muoversi nell’oscurità, al riparo dall’ovvietà. A volte sembra di ascoltare la versione italiana (in tutti i sensi italiana, quindi più povera, più simpatica e meno magniloquente e tamarra) degli Einstürzende Neubauten; altre volte ritorna in mente, cupo com’è e forse anche di più, il profilo snello e crepuscolare del primo Nick Cave. Ma nulla scalfisce la definita personalità raggiunta dalla band, ormai forte di un riconoscibile marchio di fabbrica, fatto di qualità e intelligenza. Sarà questo, quindi, un disco da scoprire e curare, da interrogare o lasciar scorrere come indistinto sottofondo, uno di quei dischi che durano molto più di un anno, cui bisogna per forza affezionarsi. “Non è vero quel che dicono\ che sia splendido e scaltro\ conosci Lucifero\ è nello specchio del bagno”.
(Giuseppe Franza)
17 gennaio 2011