Share This Article
Per venti anni.
In questa silenziosa terra di mezzo ci siamo perduti. Vent’anni per sgusciare tra le mangrovie di un tempo immoto.
E non eravamo lontani. Io a Regina Pacis, tu in Via Gazzata, Centro Storico. Un chilometro e due in linea d’aria, vent’anni per ritrovarsi e capire che poi davvero, no, non eravamo così diversi.
Tu con le tue auto da rally e le tue donne. Io e miei anni fuori corso, di libri e conifere e gin lemon e svolazzi.
Io sempre fermo però, come una onusta pietra miliare.
Ci eravamo lasciati alle pendici di un’adolescenza stupidamente solitaria, la mia. La tua è stata invece scoppiettante-smarmittata e piena di amici, mi dissero poi. Almeno io lo esigo.
Negli anni ti vidi sfrecciare per la città sulle ruote a velocità iperluminali, sempre troppo veloce e furioso per fermarti.
Tu m’insegnavi come ci si predisponeva al bacio alla francese, ca vans dire, “limonare” alla zuava. Tu, Fafo il Re della Lussuria, Fafo the Scopetor.
Davvero la tua prima ragazza era un ‘inenarrabile catafalco, ma io te la invidiavo. Da una qualche parte bisognava pur iniziare, e tu iniziasti prima, quando io ancora giocavo con le automobiline Polystil in mansarda, con la pista disegnata con il gesso sul pavimento ancora grezzo.
Quando mi telefonasti, cinque anni fa, la tua voce mi cadde addosso inaspettata come una granita di rugiada, squillante e tersa.
Nel farraginoso peregrinare tra una scuola media e l’altra, rimosso a forza da quel paranco molesto che era mia madre, fosti il primo ad accogliermi nel tuo banco, io straniero, io eterocrono (è un refuso per eteroctono!, ma è forse meglio così), io espiantato a forza dalla madrepatria orologia (2).
Fu imprinting in età scolare, avevo bisogno di un amico chioccia.
In tre anni alle medie io andai molto bene e tu malino. Se c’è una gioia che mi esplode, a pensarla, è la mattina in cui la neve cadde così greve sulle piante del giardino della scuola da sradicare un’enorme quercia centenaria e indurre la professoressa a rinviare sine die la più temuta interrogazione di storia dell’emisfero boreale.
Ci abbracciammo tutti. C’era anche Giuliano, il tuo omonimo dal cuore-piuma.
Dov’eri quando giocammo alla mia prima “bottiglia” sul treno Bologna- Firenze? E quando facemmo la foto con le tedesche nella Fortezza da Basso? Certo non eri lì, ma io ti ci metto. Io sto sempre lì con quella fanciulla con i capelli castani corti e gli occhi verdi. Eterno femminino di teutonica dolcezza. Ora madre di gemelli angosciati a Ingoldstadt, la mia foto in quale cassetto?
Sbaglio se ricordo che amavi la Monia Masotti?
La gioia era anche mettersi in cima all’enorme scalinata di marmo bianco a scrutare l’arrivo della prof., e giungere per primi in classe per recare l’infausto annuncio “Sta arrivando”, o la lieta novella “Non perviene!”. Pensandoci, questa fremente attesa portava il nome di “appostatio”, e mi rendo conto di aver incrociato ricordi di diversa genìa: la scala di marmo era alle medie, l’appostatio è un latinorum pecoreccio che affonda le sue radici nel tedio ginnasiale. La prof., poi, è sicuramente la Ghirelli, Erinni lesta punitrice greco-latina.
Alle medie la Pantaleoni era, invece, sempre bene accetta con la sua similpelliccia bianca, i capelli ricci neri alla Liz Taylor ultima maniera, le gambe che spuntavano da sotto, bellissima cefalopode.
Ma è lo stesso. Adoro le memorie bastarde, senza pedigree.
Nella cartografia del ricordo non c’è mai nulla di sbagliato, nella cartografia del ricordo la mappa è il territorio (isomorfismo perfetto).
Nel 1982, quando Gilles Villeneuve morì in una capriola di fuoco arrivasti a scuola con la faccia slacciata. Eri distrutto. Un adolescente in rovina. Tutti i tuoi Peugeot con la siringa ablata, le Magura, le sofisticazioni marmittiche, non significavano più nulla.
Gilles era il tuo alfa, Gilles era il tuo omega. Quanto lo adoravi.
Inutilmente tentasti di portarmi a Maranello in pellegrinaggio. Non potevo.
Per questo, forse, cercasti un giorno amici più svegli ed emancipati, per formare la tua carovana di scoppiettanti motorette sulla statale per Sassuolo (più pericolosa di Omaha beach!).
A Maranello te ne stavi su un ponticello, seduto sul cavalletto del 105, a fare foto, per ore. Autosprint non aveva segreti per te, Mario Poltronieri te lo saresti bevuto come un ovetto fresco, la mattina.
Mi chiamasti, venti anni dopo, e fu subito un’epifania triste.
Eri nato per correre su motori roventi e la tua carriera al vento e all’aria era stata interrotta da un biker albanese, che ti aveva portato via una gamba; gamba che un chirurgo di montagna ti aveva ermeticamente riattaccato, ritrovandola tra le felci.
Aspettavi i soldi dell’incidente, e mi chiedevi come mai un processo potesse durare un’era geologica. Poteva eccome, ti risposi, e infatti è sempre in corso, nonostante me e nonostante te.
Dopo il botto avevi perso pure le fidanzate, due (o tre?), che avevano preso atto della rispettiva presenza nel mondo, venendoti ad assistere in rianimazione. Una volta rianimato, fosti mollato da una folla. Non credo giustamente. Il tuo entusiasmo per la gonna era puro, assoluto, irrefrenabile e garbato, ma a loro insaputa.
Certo, era mancata un po’ la comunicazione, e una precisa, scientifica organizzazione.
Ti avrei visto bene venditore di biancheria intima a domicilio, come un tizio di Olmo che è forse mio parente, il quale battè la bassa con pizzi pregiati e dovette fuggire in Australia, braccato da maritale protervia vendicatrice. Faceva anche il pittore.
“Andai alla Buffetti”, mi dicevi. E lasciasti i sogni di gloria motorista per incamminarti nel brutale mondo della cancelleria industriale, il più rapido tra i venditori della Cartoleria Moderna.
Quando l’albanese ti spolverò la gamba eri un long-seller apprezzato in tutto il modenese, dotato di auto aziendale e altri benefits, dotato anche di pregevole agenda di vacchetta sulla quale annotavi il nome delle cartolaie del Foro geminiano di pregevole fattura. Spesso passavi e ripassavi, senza pietà, dalla stessa cliente (io, cercando di non sfigurare, millantavo infedeltà a raffica soltanto immaginate, ora lo sai). Sapevi anche affezionarti.
Vediamo cosa dovevi farti perdonare, Fausto: io dico l’ochetta affondata in concorso alla Pinetina di Vezzano, inchiodata al fondo dello stagno, in quell’orrore di natura tarpata. Scarpa gettata in faccia a Grillo Parlante! Non si fa. E a me cosa toccherà per questo?
Pensavo, a maggio, che tua madre assomigli ancora molto alla “madre” di Amarcord, con quell’antico crocchio in testa che sembra un bozzolo di seta. Quanto la facevi arrabbiare…
E tutti quei giornaletti in casa, Lando il Montatore, Eiacula e Cimiteria che lei, continuamente, scovava… In casa bevevi la birra per darti un tono e poi la sputavi nel lavello.
E quando uscivamo lei gridava disperata e sembrava dicesse: “La prossima volta ci metto la stricnina, nella minestra!”.
Mi chiedevi di andare a pescare alla pozza delle Acque Chiare, e io non venivo mai. Ma ora ci abito.
Di Maranello ho già detto. Mi dispiace. A me la formula uno ha sempre annoiato.
Il tuo sogno prometeico, perché eri sempre un dragster in procinto di esplodere sull’asfalto, era la tua nuova attività privata.
Coraggioso e senza macchia, come don Quixote da galleria del vento e cx da paura, avevi costruito questa arcadia privata della cartoleria definitiva. La foto, sopra, mostra l’insegna, una penna d’oca svolazzante e di fianco la scritta “La Biro”.
L’ho presa qualche sera fa, scarrocciando con Puck dall’usuale suo zampagiro.
Avevi nel periscopio un viaggio in Cina, novello Marco Polo cartoleristico, dove avevi individuato merce prodotta a prezzi così diafani da poter sbaragliare la concorrenza emiliana dalle fondamenta, e bastava solo un poco di tempo in più per aprire lo scrigno delle delizie che anelavi.
Sognavi di alluvionare tutta la pianura con cancelleria dagli occhi a mandorla marchiata “la Biro”.
Eri sempre “aperto”, nei ferragosti di ogni mese. Quando passavo c’eri, anche la notte. Una sera bussai e la luce si spense. Silenzio tombale. Sono io, mica la Finanza! E uscisti fuori in una epifania di fumo di maria, con Massimo che mi guardava insospettito sulla poltrona.
Una sera c’eri tu e la tua morosa (quella mora), ed eravate intenti a riempire bolle di trasporto e compilare fatture con le occhiaie da febbre dell’oro.
Ritrovati, ci organizzammo per andare a mangiare una pizza che non mangiammo mai.
Il tempo ti mancava sempre.
E ora, un ultimo ricordo, Fausto: maturità, stiamo sdraiati sulle scale della scuola. Daniela * (3) è in piedi e ha la gonna, io mi sdraio di schiena e tu mi spingi sotto di lei sul pavimento lucido e liscio, come farebbe un meccanico che infila il collega sotto la sua Rossa, per le riparazioni. Le mutandine di Daniela erano sottili e un pochino “risucchiate”.
Tengo le mani sulla saracinesca de la “Biro” chiusa su di te e sui tuoi progetti. Io, rispetto a te, ti sono in un certo qual senso eterocrono; siamo, per così dire, sfasati. Dentro il locale, si vede, hanno ripulito tutto.
Faccio la foto, con il flash, proprio perché voglio scrivere tutto questo e “allegarla”. Penso che la foto debba essere proprio brutta, come la saracinesca che ci divide.
A Fausto Vecchi, Pilota, 1970-2010.
1. Il titolo è la prima strofa di “Fausto”, decima traccia di “Cattive Abitudini”, ultima opera dei Massimo Volume (e 2° classificato tra i dischi dell’anno 2010 di Kalporz). Il pezzo è bellissimo e mi ricorda Fausto, in primo luogo perché si chiama “Fausto”, in secondo luogo perché mi piace quando parla di passeggiate in centro in due, “come vecchi bonzi ubriachi” (nel seguito della strofa), Una passeggiata che mai facemmo e avremmo dovuto fare.
Fausto fa anche “Vecchi”, di cognome, ma questa è una stupidata.
Gli stupefacenti in questo ricordo non c’entrano nulla, ma è certo che gli angeli di Fausto dovessero essere davvero tanto drogati, per fare quel che hanno fatto.
2. Orologia: quartiere Orologio-Regina Pacis
3. Omissis (cognome).
(Matteo Marconi)
31 gennaio 2011