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C’era e c’è molta aspettativa sul decimo album di studio dei Deerhoof. Su di loro punta tutto quel pubblico orfano del rock indipendente anni ’90 e della sperimentazione meno seriosa e parte di quella critica ancora innamorata dell’estetica postmoderna, ma “Deerhoof vs Evil” non è il capolavoro sperato. Succede che la migliore qualità del gruppo, da sempre custodita in quella strana ricetta che mischiava ingenuità e verità, spirito giocoso e suggestioni ansiogene, punte di dolcezza e pizzichi di disperazione, in questo disco non funziona o non esplode come dovrebbe. Ciò non significa che l’album sia in toto malvagio, anzi. Ci sono le solite uscite brillanti da cabaret pop-noise, il pot pourri di generi, gli scherzi indie-matematici o psichedelici e le liriche trasognanti della vispa Satomi Matsuzaki, eppure nell’estemporanea creatività del gruppo latita la sintesi poetica, la forza del motivo espressivo che avrebbe potuto fare di questa selezione un vero e proprio must.
Peccato. Il gruppo ha le potenzialità per meravigliare attraverso passione e leggerezza, ma questa volta il manierismo pare ingiustificato e i barocchismi concettuali non riescono ad arrivare a destinazione, fermandosi prima del dovuto o muovendosi goffamente su se stessi. Girano i brano pseudo-dance e gli esperimenti più pop, peggio le dilatazioni post-rock alla Tortoise. Il gruppo è come compromesso in quella strana mania di non voler cedere a compromessi e infetto dal pericoloso virus della presunzione e per queste ragioni fallisce la prova della definitiva e definibile maturità. Il pezzone c’è e si chiama “Super Duper Rescue Heads!”, beckismo frizzante e spiritoso, ma intorno c’è molto poco che viaggi allo stesso livello. Salviamo dal mazzo anche il rumorismo intelligente di “The Merry Barracks” e le atmosfere rinascimentali di “No One Asked To Dance”, dove sembra di riascoltare il lirismo psichedelico dei vecchi Os Mutantes in una cornice Canterbury Rock.
È abbastanza? Lo sarebbe se non si trattasse dei Deerhoof, l’eterna promessa dell’indie pop sperimentale americano. Le altre tracce ripetono i Deerhoof più rock del precedente “Offend Maggie”, o quelli più stravaganti di “Halfbird”, in un rimpasto che lascia pensare a una sistemazione autoreferenziale. Se all’ascolto emotivo il disco non funziona come dovrebbe, con un ascolto analitico vengono fuori numerosi elementi interessanti che potranno affascinare le nuove generazioni: furbi effettismi di chitarra e sapiente uso dell’elettronica rispondono con incisività e originalità alla pretese produttive di alta qualità. La tenuta stilistica è, però, incerta e la coerenza sonora (fatta appunto d’incoerenza mirata, o libertà espressiva totale) non vive con completezza e credibilità in tutti i brani. Il rumore che lacerava il silenzio, come gioia o irrequieta smania esistenziale, è qui agito con poca determinazione o con accidentalità, la melodia è impoverita nella sua solita accattivante sensualità da una produzione al limite del cervellotico e le stramberie (vedi l’esperimento afro-sperimentale in catalano di “Qui Dorm, Nomes Somia”) sembrano più dovute che ispirate. Sono passati più di quindici anni dal loro debutto sulle scene, una lunga stagione di surrealismo e proficua confusione, e probabilmente anche per loro è arrivata la stanchezza, l’ora del riciclo.
55/100
(Giuseppe Franza)
Collegamenti su Kalporz:
Deerhoof – Offend Maggie
Deerhoof – Friend Opportunity
11 Febbraio 2011