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Ma chi glielo fa fare ancora, ai Radiohead, mi chiedo. Non potrebbero fare come gli U2 all’apice del successo, mandare tutto in vacca, darsi alla macchia (artistica) e sfornare roba che Thom Yorke compone leggendo la Gazzetta dello Sport?
Invece no, sono ancora qui e nella maniera migliore.
In primis, anche se è un aspetto che mi interessa relativamente, per la capacità di ricatalizzare l’audience con logiche che sorprendono: la volta scorsa fu con il “paga-quanto-vuoi”, stavolta (pur pagando) lo è stato con la completa mancanza di informazione preventiva e la botta mediatica della Data Fatidica in cui tutti hanno potuto fruire del disco in contemporanea mondiale. La cara, vecchia data di uscita granitica, che in questi ultimi tempi si era un po’ persa per via del disallineamento delle uscite digitali e fisiche. Insomma, venerdì 18 febbraio 2011 (o al massimo il sabato per i distratti dallo scherzetto dell’anticipo di un giorno sulla data annunciata) tutto il mondo era lì che ascoltava, in diretta, “The King Of Limbs”, che bloggava in synch condividendo con altri le sensazioni del primo ascolto, e altri deliri del genere. Probabilmente bastava aprire la finestra per sentire il vicino che gorgheggiava “Lotus Flower”. Non l’ho fatto, non lo so, ma avrebbe potuto essere.
Piuttosto credo che ogni buon radioheadiano che conosca la profondità dei nostri abbia avvolto le tracce digitali di “The Kings Of Limbs” come si fa con un neonato, le abbia cullate fino a quando non ha potuto appartarsi, ascoltandole e godendone con avida estasi. Io sono arrivato a casa e ho spento tutte le luci. Perché per noi Radiohead-addicted l’importante non è il metodo di lancio, cioé la forma, bensì la sostanza. Il contenuto. La musica. E qui partono le sensazioni, i brividi, i sentimenti. Perché ormai i Radiohead non sono più un gruppo, sono come una ragazza. La propria ragazza. Quella di cui si può aver paura che ti tradisca. Per cui c’è l’amore, ma c’è anche il timore. Ogni uscita fa sorgere la domanda: “E se questa volta non mi emozionano?”.
Invece, è tutto a posto. Lei è tornata, come ogni sera.
Colpisce innanzitutto la perfezione della scaletta, che fa sì che “The King Of Limbs” sia un album da fruire come un tutt’uno, tutto d’un fiato. Un monolite. Il susseguirsi dei brani è capace di far immergere proprio nei luoghi in cui vogliono traghettare i Radiohead: “Bloom” disorienta con la sua dubstep jazzata, il tempo di batteria impazzito e i synth che si espandono in lontananza come bolle in stanze asettiche, ed è la Porta, l’Inizio di un viaggio oscuro e fascinoso proprio perché non si fa scoprire subito. “Morning Mr. Magpie” è invece l’Azione, il voltarsi, il cercare di capire dove ci si trova e perché. E non è così facile: le coordinate di “In Rainbows” non servono ad un fico secco. Ci si ritrova in un ambiente cerebrale, ricostruito artificialmente, laddove negli Arcobaleni si era sperimentata invece la gioia di esprimersi senza le barriere arzigogolate del pensiero, perché là i Radiohead era come se fossero semplicemente tre chitarre in una sala prove, come ai tempi degli On A Friday.
Ma è con “Little By Little” che arrivano i primi dialoghi, la Storia, e la sensazione di essere al cospetto delle melodie del periodo “Kid A” ri-attualizzate (secondo me “Optimistic”, nel 2011, i Radiohead l’avrebbero arrangiata così). Non si fa in tempo a comprendere qualcosa che già “Feral” spinge subito verso un’ulteriore Fuga. Corsa in salsa salsa, tempo caraibico sulla scia della sorpresa exotica di Caribou dello scorso anno.
In tutta questa sceneggiatura c’è bisogno di vivere e sentire i Radiohead come li abbiamo conosciuti, in fondo. E “Lotus Flower” dà questa possibilità, questa Certezza. Siamo noi, siamo qua. E come a rimarcare questa sensazione ecco arrivare subito dopo il Porto sicuro, “Codex”, che schiude definitivamente tutte le riserve, tutti i dubbi, tutte le paure. Ci travolge e ci lascia in preda a lievi lacrime di contentezza. Possiamo finalmente abbandonarci a noi stessi, ritrovandoci grazie alla catarsi che sono un disco dei Radiohead sa trasmettere, come una seduta di autoanalisi. “Into a clear lake / No one around”.
“Give Up The Ghost” è speculare a “Codex”: se quest’ultima è una sorta di “Pyramid Song” del 2011 (tendente a “Videotape”) dove dunque il grand-piano la fa da padrone, la traccia 7 rappresenta il medesimo significato però in chiave folk, con la chitarra acustica che è carezza, abbraccio, richiesta-mantra di non subire del male. “Into your arms, into your arms (Don’t hurt me)”.
Queste ultime due canzoni mi spaventano a pensarle suonate dal vivo, mi appaiono fin d’ora come la bellezza che si espande nell’aria, ed è (già) un’emozione indescrivibile.
“Separator”, infine, solleva. Apre e chiude allo stesso tempo. Dà la consapevolezza dell’Arrivo. Non definitivo, in tanti hanno già enfatizzato i versi “If you think this is over / Then you’re wrong” come preannuncio di un prossimo disco, a breve, con le outtake da queste sessioni di registrazione. Bella scoperta.
Senza arrovellarmi su queste briciole di Pollicino avrei scommesso già circa un ulteriore album sol pensando a quello che avvenne con “Kid A”-“Amnesiac” e “In Raibows”-“In Raibows 2”. E la compattezza del viaggio di “The King Of Limbs” così come ho cercato di descrivere mi rafforza questa convinzione: c’è stato un lavoro certosino di scelta nella tracklist, altre canzoni magari già incise non avrebbero potuto esserci, in “The King Of Limbs”.
Mi piace pensare che i Radiohead abbiano voluto, con “The King Of Limbs”, dare forma all’eternità che è nell’effimero, un disco-quotidiano (vedi artwork) che dura lo spazio di un giorno perché alla sera si torna a casa, le ossa rotte, e “The King Of Limbs” è lì che ti racconta una giornata, una semplice giornata del 2011, una delle tante. Con un progetto, un’idea (il prossimo disco?), un proposito fuori sulla soglia pronto ad aspettarti il giorno successivo.
Il prossimo scampolo di eternità.
78/100
(Paolo Bardelli)
21 febbraio 2011
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