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Un’alquanto pessimistica corrente di pensiero vuole che nell’arte, intesa nel suo significato piú ampio di espressione creativa ed estetica (Wikipedia docet), siano giá state esplorate tutte le forme, gli stili ed i generi, tanto da non lasciare piú spazio a sperimentazioni di nuovi modelli. Ciò fa sì che si tenda a ricondurre tutte le nuove espressioni artistiche nell’angusto perimetro del revival stilistico.
Non fa certo eccezione la musica rock. Dopo aver spremuto fino all’osso gli a lungo bistrattati anni ’80, soprattutto il primo lustro, quello del post-punk, del dark e della new-wave, ora la rivisitazione formale targata anni ’00 (pardon ’10) posa lo sguardo sui nineties e sulle tinte sfumate del primissimo indie rock.
Circondati dall’hype grazie a singoli e demo di pregevole qualitá comparsi in giro per la rete nel corso del 2010, ecco giungere gli Yuck a farsi portavoce con l’omonimo album di debutto di questa nuova prorompente ondata. Danny Blumberg (chitarra e voce) e Max Bloom (chitarra) non sono certo dei novellini del genere, avendo pubblicato, con solo 15 primavere alle spalle, il loro primo cd, The Color of Life, con il nome di Canjun Dance Party. Dopo un rimpasto nella formazione, con l’arrivo del batterista newyorchese Johnny Rogoff e della bassista made in Japan Mariko Doi, gli Yuck arrivano ad agitare questi primi mesi del 2011 con il classico “esordio col botto”, che si candida a rivaleggiare con il debutto di James Blake (altro genere, stesso talento) come prima vera Next Big Thing del nuovo anno.
Ascoltando gli Yuck si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad una piccola enciclopedia rock che raccoglie nei suoi volumi tutti quegli episodi trascurati dalle vendite, che hanno peró contribuito non poco alla formazione musicale di fiotti di musicisti (e di critici) che si affacciavano alla porta dei negozi di dischi indipendenti tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90. Gente cresciuta a pane e Yo La Tengo, divenuta presto addicted al ronzio alle orecchie targato My Bloody Valentine o al fiero, impegnato cazzeggio di quei mostri sacri conosciuti col nome di Pavement.
Gli Yuck hanno fatto loro la lezione dei padri e, con un occhio fisso ai poster attaccati in camera, hanno partorito un album che incontrerà il gradimento di tutti coloro che, scartabellando nella propria collezione di Lp, si trovano infine a mettere sul giradischi i soliti grandi classici dell’alternative rock.
Passando con disinvoltura da tonnellate di distorsioni chitarristiche intrise di appiccicose melodie garage e refrain che piú catchy non si puó, a torbide litanie piacevolmente malinconiche, gli Yuck mostrano di possedere un songwriting sorprendentemente ricco e variegato, oltreché un bagaglio di cultura musicale non indifferente. Le iniziali “Get Away” e “The Wall” sono figlie di pomeriggi interi passati con i Dinosaur Jr. nello stereo, la splendida “Suicide Policeman”, impreziosita nel finale da rifiniture jazz appena accennate, impressiona per i suoi torbidi vagheggi psichedelici, mentre il gioiellino semiacustico “Suck” fa venire in mente alcuni dei rari episodi melodici dei Sonic Youth.
Ma è proprio la capacitá di arraffare senza farlo pesare, ció che rende la proposta della giovane band una spanna al di sopra di quelle di molti contemporanei. Non infastidisce quindi la palese strizzata d’occhio tirata ai Yo La Tengo piú trasognati e fluttuanti nella eterea ballad “Stutter”, né la sfrontata dichiarazione d’amore ai My Bloody Valentine di brani come ”Holing Out” e “Rubber”: frenetiche cavalcate shoegaze che martellano le orecchie dell’ascoltatore mentre voce e melodia si dissolvono fumose sotto un muro di suono. Tracce come “Georgia” , cantata da Blumberg in coppia con la sorella o “Operation”, scanzonato garage rock che profuma di Pixies, dimostrano come con un po’ di fortuna, i nostri giovani eroi possano sperare di vedere il loro nome scalare posizioni in cima a qualche chart. Ma siamo sicuri di volerli davvero in testa alle classifiche?
75/100
(Stefano Solaro)
28 febbraio 2011