Share This Article
Non esiste probabilmente elenco più lungo di quello delle esperienze che frustrano l’autostima, la dignità, perfino la virilità, già spesso seriamente compromessa, dell’appassionato di musica. Gli innamoramenti estemporanei ma pieni di passione per ragazze che forse una volta hanno ascoltato i Kings of Convenience, gli interminabili spelling proposti ad infastiditi commessi di negozi di dischi per cercare di procurarsi almeno un album con il quale avere un contatto fisico, ma soprattutto la necessità di rispondere di tanto in tanto alla fatidica domanda: -Ma perché? Tu che musica ascolti?-. Nell’ultimo caso il malcapitato di turno tende a ricorrere a due espedienti ormai definibili classici: una serie di riferimenti colti alla storia del rock, conditi con eventuali cenni tratti dai campi delle arti in genere, della politica, delle scienze sociali, risultando così noioso ed incomprensibile, oppure una affannosa ricerca di etichette, nomi, sigle, magari ispirate dalla fantasia del recensore letto la sera precedente, capaci di identificare il proprio gusto in modo adeguatamente sintetico. Ed è in questa imbarazzante evenienza che emergono degli autentici mostri: dall’ormai inflazionato “indie”, passando per il vetusto “rock alternativo”, fino al respingente “elettronica”, esposto anche a fraintendimenti dancefloor-friendly.
L’etichetta che è stata affibiata a Dylan Baldi, alias Cloud Nothings, è “punk-pop”. In effetti questo ragazzo proveniente da Cleveland, cui il progetto creativo è sostanzialmente in mano, propone una musica energica e dolce allo stesso tempo, chitarre ad alto volume ma piene di melodia, una versione zuccherosa del pop più rumoroso. Come se i primi Arctic Monkeys avessero fatto indigestione di pesche sciroppate, ed abbandonato, come purtroppo è in seguito accaduto realmente, l’accento di Sheffield. Una sintesi però non puramente frutto di influenze, dalla quale emerge una certa originalità, proprio perché il gusto per la melodia è posto in primo piano: in ogni canzone gli spigoli tendono infatti a diradarsi, senza perdere in ritmo e adrenalina. “Understand at All” e “Not Important” impongono immediatamente una andatura sostenuta all’orecchio dell’ascoltatore, per poi lasciare spazio alla più rilassata e radiofonica “Should Have”, un po’ la “Fluorescent Adolescent” del nostro, per restare sul parallelo precedente. “Forget You All the Time” e “Rock” ripropongono invece un indie caramelloso ma sottoposto ad un robusta cura di steroidi, in cui emerge un approccio marcatamente lo-fi, tra Vivian Girls e Wavves. Il quadro solare, irriverente, ed un po’ modaiolo, non riesce però ad occultare un vizio di fondo: sarà l’esigenza di comunicare che ha portato Baldi ad essere molto prolifico nei mesi precedenti la lavorazione del disco, sarà la via che si è deciso a praticare, qualunque sia la causa l’album tende a stancare intorno al secondo,terzo ascolto, ed in particolare emergono alcuni pezzi evidentemente utilizzati come riempitivi. Anche la durata delle canzoni, che mediamente si attesta sui due minuti e mezzo, non riesce a dissimulare la stanchezza che si cela dietro un divertimento talvolta autoimposto.
Siamo quindi lontani dal divertente ed intelligente pop-rock da cameretta di Best Coast o Smith Westerns, piuttosto ci troviamo dalle parti di progetti un po’ incompiuti come ad esempio i Male Bonding: o meglio, una certa unità è sicuramente presente nell’album, soprattutto rispetto al precedente “Turning On”, raccolta degli EP’s frutto dei primi anni di lavoro di Baldi, il quale però aveva l’indubbio pregio di contenere al suo interno una eterogeneità che non permetteva di cogliere ancora pienamente la direzione verso cui sarebbe evoluto il progetto. Adesso si può dire che l’acquisita coesione del suono è stata pagata con una certa monotonia.
“Cloud Nothings” è quindi uno di quei numerosi album che è possibile ascoltare, magari anche con piacere, ma che evaporano subito dopo l’ascolto, senza lasciare traccia. Un po’ come certe inconcludenti conversazioni di argomento musicale, in cui Baldi, emancipato dalla psichedelica etichetta “punk-pop”, troverebbe posto sotto la più tradizionale categoria di “power-pop”.
55/100
(Francesco Marchesi)
27 Marzo 2011