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Quello che eravamo e siamo ancora è riunito ai Candelai, non proprio come ai vecchi tempi… ai vecchi tempi avevamo tante speranze. Non che ora non ce ne siano in giro per i nostri pensieri e le nostre intenzioni. Ma quelle speranze erano adamantine, erano persino divine perché forti nella fede di cambiare lo spazio più lontano dalla semplice presa delle nostre mani: ci vuole forza del pensiero e capacità paranormali per essere ragazzi! Che poi è un po’ come essere dei supereroi. Quando negli anni novanta ascoltavamo “Stanze” o “Lungo i bordi” dei Massimo Volume non c’era da ridere, non c’era da costruire mondi giusti e felici, non c’era da scommettere un grammo della nostra fiducia nell’essere umano, poiché quelli erano testi crudi, asciutti, direi definitivi sui banali quadretti balneari che rappresentano la vita.
Mimì era però quel poeta che costruiva la salvezza attraverso l’arte, che creava l’idea – e con la musica dei suoi amici la rafforzava – che è lì dentro che bisogna sperare e bisogna costruire quel pensiero che resterà quando ogni sillaba della storia umana sarà polvere. E noi ci irrobustivamo in quella crudezza che era sincerità distesa ad aspettare il sole; e con la forza sovrannaturale aspettavamo lieti questo sole, forse già cambiando il mondo. Poi ci siamo assestati nelle solite posizioni di rassegnazione che è aprire gli occhi, che è svegliarsi di certo, ma dentro l’incubo dal quale non ci si desta. La chiamano età adulta. E ci siamo caduti con strumenti e regole che abbiamo appreso ma che nessuno di quelli che ci ha preceduti preparandoci la strada ha fatto sì che ora noi le si possa applicare. Uno scherzo crudele, senza amore. La nostra bellezza violata…
Ma poi i Massimo Volume ritornano e stasera in noi che siamo ai Candelai freme qualcosa in fondo al cuore. Non c’è la solita attesa, niente pressioni, niente fretta nel prendersi qualcosa da bere, nel correre sotto il palco per accaparrarsi il posto migliore, anzi gli si sta lontani, quasi come un gesto scaramantico, quasi con la paura che desiderandolo troppo il momento non arriverà, o forse semplicemente con la certezza flemmatica che tutto alla fine accadrà. Si ritrovano amici perduti con cui si era condiviso un periodo di ambizioni musicali, ci si ritrova accennando al lavoro, ci diciamo a che punto siamo nella nostra vita, quali sono le nostre nuove alleanze. E poi si accenna ai Massimo Volume: “Tu li seguivi?”, “Per me questo è il miglior album di sempre!”, “Li ho ascoltati quando nessuno li ascoltava più”, “Li seguo dal primo momento…”, “Speriamo che suonino ‘Il Primo Dio’!” Le frasi si inseguono senza l’urgenza di comunicare, con una discrezione, una timidezza dei sentimenti che fanno riflettere. C’è una indefinibile remora a parlare dei Massimo Volume, come se non si volesse far accedere nessuno con leggerezza ad un sacrario che, in fin dei conti, è quello che eravamo. È il nostro personale tempo ritrovato, la scena finale di un ballo in cui la recherche trova il suo compimento. E i Massimo Volume stasera sono venuti qui a celebrarla per noi, prima del nostro sgargiante declino.
Come sacerdoti iniziano il loro rito religioso che durerà un’ora e mezza, quasi come una messa di Natale, in silenzio, senza mai rivolgere una parola, tra loro e con noi, mettendo in scena le dodici tracce di “Cattive Abitudini”, una litania che in rigoroso ordine si scioglie da “Robert Lowell” a “In un mondo dopo il mondo”, e alla quale rispondiamo con un profondo applauso, il nostro amen tra una canzone e l’altra. Non ci sono parole in più oltre a quelle poetiche che tentano di risolvere quello che è da sempre il cruccio della musica rock: essere arte totale! Arte che chiede di essere ascoltata con attenzione, in trance intellettuale, senza barocchismo, senza vanità, scarna perché nessun orpello o imbellimento potranno dire più di quello che proferisce Emidio, più di quello che inappuntabile e necessario suona Egle, più della classe lieve e solida di Vittoria, più dell’incontenibile vigore del giovane jedi Stefano. Fissiamo a occhi aperti senza reclinare la testa, accenniamo a morbidi e contati headbangings, ondeggiamo le spalle – è impossibile non farlo – qualcuno alza le braccia e chiama per attrarre l’attenzione, qualcuno vorrebbe precorrere i tempi chiedendo a viva voce “Fausto” quando ancora siamo arrivati a “Tra la sabbia dell’oceano”. Non si deraglia dalle regole di questa celebrazione, l’emozione, se sapremo cogliere la profondità abissale di questa poesia, ci farà implodere in un oceano o in un’arida notte.
Questa è l’unica condizione per riemergere purgati e rigenerati in un tempo deserto.
Quando i due bis ci verranno dati in un di più evangelico, la celebrazione sembra terminata: Emidio ora sorride alle urla afferrate tra il pubblico sussurrando un “Grazie” che è meraviglioso, Egle alza il braccio per salutare, Vittoria, lei no, lei resta sempre defilata e sfuggente, mentre Stefano gongola apertamente contento perché è andata come sperava. Appena attaccano le note de “Il Primo Dio” le voci d’uragano del pubblico che finalmente canta a squarciagola, sono il ricordo vivo che il passato giovane è stato reale e valoroso. Allora capisco: questo è il vero atto finale della rigenerazione, in quanto essa deve passare anche da queste latitudini per dirsi adempiuta, ricalcare la nostra giovinezza per rimetterci di nuovo di fronte a noi stessi, per darci le condizioni interiori che ci facciano cercare ancora una volta una risposta all’ossessivo “Leo è questo che siamo?”… è così che ci si rimette in strada, zaino in spalla, con memoria affilata, esperienza faticosa che però dona forza alle gambe.
Tutto qui! Finisce con un “andate in pace” che per chi vuole intendere è un arricchimento del cuore, uno di quegli appuntamenti scritti in modo così perfetto da farti pensare di essere un eletto. Di nuovo quello strano misticismo da supereroe… Che la rigenerazione stia iniziando a dare i suoi frutti?
(Stefania Italiano)
foto di Emidio Corleone / Studio Cutup
14 marzo 2011