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Parlare di Paolo Messere unicamente come deus ex machina dei Blessed Child Opera sarebbe senz’altro riduttivo. In più di dieci anni di permanenza nel panorama musicale Messere ha infatti vissuto diverse esperienze. A iniziare da quelle con i Silken Barb e con i francesi Ulan Bator, con i quali suonò come chitarrista e tastierista per tre tour. Ma soprattutto, parallelamente alla carriera con i Blessed Child Opera, la creazione della Seahorse recordings, etichetta indipendente assai attiva in territorio nazionale. Ora si è aggiunta la sotto etichetta Red Birds, che presterà attenzione a progetti musicali meno fruibili e più particolari. Inoltre pare aver messo fine alle sue peregrinazioni geografico-musicali, scegliendo Sassari, nel nord-ovest della Sardegna, come base operativa della sua Seahorse. E in mezzo a tutta questa attività di produzione viene pubblicato ora il quinto disco dei Blessed Child Opera, didascalicamente intitolato “Fifth”.
E se tutti i precedenti lavori della band avevano lasciato qualcosa di buono una volta che finivano di girare nel lettore, questo nuovo album stupisce in positivo. Siamo infatti lontani dai toni cupi dell’omonimo esordio prodotto da Amaury Cambuzat e di “Looking after the child”, del 2004. “Fifh” porta in dote un pugno di canzoni solari e luminose nella loro apparente semplicità. Il DNA della musica dei Blessed Child Opera continua a essere la psichedelia folk che guarda alla musica statunitense, senza però chiudere le porte a rapidi inserti di campionamenti elettronici e sound vagamente new wave. Siamo di fronte a un disco ricco di suoni e di ospiti: Messere per questa sua quinta avventura ha voluto come compagni di viaggio musicisti della propria etichetta come i sassaresi Stefano Sotgiu, Antonio Sircana, Luca Monaco (che incidono per la Seahorse nella band Goose), oltre a Valeria Sorce, Fabio Centurione, Vincenzo Bardaro e Pericle Odierna. Dall’iniziale e suadente melodia di “Nothing is in place when it should” inizia un percorso musicale di dodici tappe, fatto di suoni, atmosfere rarefatte e sensazioni. La struttura organica dei brani lascia comunque ampio spazio a strumenti che fanno capolino tra giri di chitarra, sezione ritmica e loop. Può essere l’hammond di “Clear sky optimistic” come anche il violino di “Ruby light”.
Invece di inseguire sempre le hype band straniere in ambito indie-folk, sarebbe bene alle volte accorgersi che certe perle, che nulla hanno da invidiare a produzioni americane o inglesi, le abbiamo praticamente dietro casa.
80/100
(Francesco Melis)
19 aprile 2011