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Premessa: Busta Rhymes è il tipico artista che si va a vedere a prescindere, non certo perché si è sentito l’ultimo singolo per radio ed è sembrato orecchiabile e divertente e si dice “massì, diamogli una possibilità a questo ragazzo”. Parliamo di un veterano con un curriculum di quelli che fanno impressione anche solo per il volume, senza bisogno nemmeno di leggere cosa c’è scritto sopra; basterebbe poi una strofa a random di un pezzo a caso pescato fra uno dei suoi tanti dischi per convincere l’ipotetico scettico di turno, probabilmente un ubriacone, a dirigere i suoi strali verso un altro obiettivo. Grazie alla sua abilità al microfono, la reputazione di Busta ha attraversato incolume diverse epoche dell’hip hop e l’mc di Brooklyn ha affrontato mode, miti e mutamenti della scena con l’estrema scioltezza di chi non ha proprio un cazzo da dimostrare, a ‘ste bande di ragazzini che provano e a volte riescono a cambiare le regole del gioco.
E, nonostante quanto sembra suggerire la premessa, non mi sto apprestando a farvi scendere il concerto che si terrà al Vox (sabato 23 aprile).
Dico solo che – colpa mia – dell’ultimo disco di Busta ho appreso poc’anzi da Wikipedia e che sono passati già due anni da quando è uscito. E, pur senza averlo ascoltato, mi azzardo a divinare che non sia la gemma più fulgida della sua produzione. Avrei taciuto la mia ignoranza se non avessi scoperto che il singolo (“Arab money”) è stato al centro di una dura polemica col mondo islamico: il pezzo è presentato su Wiki come un duro attacco agli effetti negativi che il consumismo ha portato nel Medio Oriente, che Busta stigmatizza inneggiando a Yasser Arafat. Il mondo islamico, di per sé piuttosto incazzoso, ha reagito bandendo da radio e programmi tivù il singolo, tacciando il rapper newyorchese di razzismo e divulgazione di stupidi stereotipi. Busta si è difeso sostenendo che la gente si diverte a fraintendere le cose, che lui stima un sacco la cultura mediorientale e che le sue parole sono da intendere come un omaggio a un popolo che ha i valori di una volta e che si sta imbruttendo per colpa del lusso.
Preso da un presentimento strano, ho rintracciato il testo del singolo ed è in effetti come pensavo: sfruttando il la datogli dalla base orientaleggiante, Busta Bus si è divertito a scrivere il solito pezzo autocelebrativo dell’mc mainstream, in cui si deve parlare:
1) di quanto ti crogioli nella ricchezza che hai accumulato con merito
2) di quanto le signorine apprezzino gli agi e le distrazioni che puoi permettere di offrire loro
3) di come le stesse signorine ti ricompensino poi sessualmente
4) di quanto effettivamente è comprensibile che il resto del mondo ti invidi e di quanto la cosa ti lasci tutto sommato indifferente.
Però lo ha fatto in salsa araba, con un esercizio di stile apprezzabile: non più pistole ma petrolio, non più procaci ebony ma big-ass knock-kneed camel toe pretty women che vanno nel camerino mentre la security vigila sui cammelli, e soprattutto la strepitosa immagine di Busta che gioca d’azzardo con Arafat al casinò, chiaro indizio di endorsement verso la causa politica palestinese, reso ancora più evidente dal fatto che il leader dell’Olp è morto nel 2004 e che pertanto si può dubitare tranquillamente della veridicità dell’aneddoto.
Insomma, io tutta questa indignazione da parte di Busta non l’ho trovata. A meno che non sia racchiusa nel ritornello (che riporto per i madrelingua arabi: “La ilaha illa Allah, hay yo/ Hili b’Allah, hey hili bay yo/ We gettin’ arab money/ We gettin’arab money/ Hala sheiki, ha lini falla/ Mili ha lan shi inni mala/ We gettin’ arab money/ We gettin’arab money), ma mi sembra improbabile.
Ma al di là di tutto, io Busta dal vivo l’ho già visto e ne ho già scritto (leggi il live report qui su Kalporz) e ci metto la mano sul fuoco: ne vale la pena. Anche se è invecchiato, ingrassato e ha perso la criniera di dreadlocks che ne caratterizzava l’immagine, anche se l’ultimo disco non fosse un granché, anche se in effetti “Arab money” è tutto tranne che un pezzo leggendario. Perché in due decenni di roba valida ne ha sfornata a profusione; perché “Break ya neck” da sola vale l’intero concerto di molti altri artisti; perché resta uno degli mc con il flow più originale e inimitabile della galassia; perché, se non bastasse, ad aprire il suo live ci saranno i Co’Sang, direttamente da Marianella, la periferia degradata dell’impero camorristico raccontata da due mc che sanno il fatto loro, uno dei migliori gruppi italiani del momento.
In concerto:
23-04-2011 Nonantola MO Vox Club
24-04-2011 Trepuzzi LE Livello Undiciottavi
(Fabio Varini)
20 aprile 2011