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Lo dicemmo già a proposito dei valentiniani (sia nel senso del marchio di alta moda che di Rodolfo l’attore) Hurts, qualche tempo fa: si potrebbe abbozzare una psico-geografia (Debord ci passi il termine) del rock inglese tutto, divisa per regioni e macrogeneri ad essa associati e viceversa. Il vate sommo della critica musicale britannica Simon Reynolds, nel suo, sempre sia lodato, “Rit It Up And Start Again” (più laconicamente “Post-punk. 1978-1984”, nella lodevole edizione italiana) ci avrebbe del resto già fornito un punto di partenza, in questo senso, pressoché inaggirabile. E di questa ipotetica psico-geografia i rampanti Chapel Club sarebbero davvero un bel paradosso, a pensarci bene. Londinesi ma con un suono schivo, ferroso e poco confidenziale, che pare a tratti forgiato negli altiforni dello Yorkshire più remoto, irrorato di brine atlantiche e spleen contemplativo (andatevi a recuperare, se vi va, l’ep “Wintering” dell’anno scorso). Tanto che, un pezzo come “The Shore”, l’urlo dei gabbiani ce lo fa proprio sentire, nei secondi iniziali, prima ancora che la nostra mente possa provare ad immaginarlo, l’urlo rosicchiato di gabbiani che qualcuno deve avere studiato a lungo, come una lingua abissale, dai vetri di una casa a picco sulla scogliera, prima di scoprire di essere totalmente solo.
Il pubblico del Circolo, nonostante il prezzo calmierato e con agevolazioni, non è propriamente quello delle grandi occasioni (come ci mostrerà Anna Calvi due giorni dopo), a riprova di come la fattucchieria persuasiva di Nme sia a conti fatti ben poca cosa lontano dai confini patri, ma il gruppo, cordiale e molto riconoscente, si posiziona e attacca subito con un’esibizione succinta, tesa, che non perde un colpo e attraversa l’ordito dei pezzi più famigerati senza rimanere impigliata nell’incertezza. Dall’ultima volta che la vedemmo (che fu anche la prima, a Bologna, prima di Fafarlo, Modest Mouse ed Arcade Fire, con un sole giaguaro ancora alto sulle nostre nuche arrossate) la band appare più ieratica, distaccata, elegante. Il loro pezzo più bello, “Roads” (assieme a “Widows” che però non viene riproposta, forse a causa dei suoi ingombranti otto minuti e passa), ci mostra come i cinque abbiano ormai affinato un controllo fin troppo accentuato delle proprie dinamiche esecutive. Tuttavia il canzoniere riversato sulle teste ondeggianti delle prime file è di indubbia qualità, tutto dedicato alle loro (e nostre) ossessioni collezionistiche per raffinate malinconie in tinta new-wave leggermente sbiadita. Di suo il gruppo ci mette, e non è poco, un peculiare gusto per le scie di feedback lattescente e per le distorsioni lavorate a colpi di tremolo riverberante (di chitarre del resto ce ne sono ben due sul palco) che fanno venire in mente i Verve del periodo migliore, i Ride, certi Catherine Wheel, i Chapterhouse o gli Adorable.
Il baricentro è senz’altro la voce fonda e aristocratica di Lewis Bowman, sottile e rasato come un anacoreta birmano, che scava belle melodie vocali e getta sguardi spiritati sulla folla amichevole, caricando forse i gesti di un’eccessiva enfasi drammaturgica. Forse, a fare i pignoli, il suono è meno denso e vischioso che su disco, con una batteria troppo essiccata che si impasta poco con i volumi schiumosi condensati dalle chitarre, ma la performance è buona e nel complesso si attesta su livelli più che apprezzabili (per una band al debutto). I ragazzi si faranno, insomma, e per il momento lasciano ben sperare.
Nota ulteriore di merito per aver eseguito i due pezzi del bis senza prima uscire dalla scena.
(Francesco Giordani)
foto di @Kmeron
19 Aprile 2011