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Per vizio si parla dei Cold Cave, un po’ come un tempo si parlava dei Nine Inch Nails. I famigerati Cold Cave sono invece un progetto creato a propria immagine e somiglianza da Wesley Eisold. Questo cupo trentaduenne bostoniano di stanza a Manhattan ha un improbabile passato in band hardcore del sottobosco indipendente della East Coast. Some Girls, American Nightmare/Give Up The Ghost, XO Skeletons, sonorità e quadri di valori in cui si è sentito sempre un po’ a disagio. Sentirsi unfit per non poter scrivere le proprie canzoni con la mente e l’ispirazione fuori-sincrono e rivolta verso gli Eighties del synth-pop. Il disagio esistenziale l’ha sviscerato in un paio di raccolte di poesie da decadente doc. La più nota ha un titolo eloquente: “Deathbeds”.
E poi finalmente i Cold Cave. L’esordio “Love Comes Close” aveva colpito per l’efficace restaurazione di sonorità synth-pop in convulsi contesti elettronici. Come se dalle tenebre un’intera generazione di paranoie e incubi dark fosse ridestata da una trivellatrice noise-pop. Se in quella mezzora d’esordio pochi spiragli si aprivano per levigate ballad synth-pop, nel secondo album il clima sembra cambiato. Malgrado la fuoriuscita di un’anima per quanto irrequieta in parte legata a soluzioni melodiche pop, Caralee McRoy (Xiu Xiu). Al fianco di questo profeta neogotico restano, ironia della sorte, due punkettoni, il truce Dominic Fernow (Prurient) e Jennifer Clavin (Mika Miko).
La tempesta perfetta del brano d’apertura stordisce. “The Great Pan Is Dead” è un’elegia EBM tecnologica diretta da un replicante di Robert Smith. Pathos ai limiti del parossismo, aria irrespirabile. In un magma che estremizza il sound di “Love Comes Close”. Nuovo tunnel senza uscita nell’oscuro microcosmo di Eisold? Piuttosto l’epopea d’apertura è uno shock isolato. Brani quali “Pacing Around The Church” e, con qualche introspezione ambientale in più “Alchemy Around You”, si potrebbero ballare e si balleranno nei floor indie. Una risposta artistica alle furbate di Editors e Bloc Party.
Nessuna strizzata d’occhio pop forzata. Pop i Cold Cave lo erano anche di più nel primo album per l’incredibile doti di songwriter di questo Robert Smith degli Anni Zero (“Catacombs” ne è testimonianza). Pop quanto le influenze conclamate di un trentaduenne che negli Eighties era meno che adolescente. Il secondo album dà più rilevanza ai synth e concede una tregua agli isterismi elettronici da synth-splatter stile Crystal Castles. I Cold Cave riescono a mettere in risalto l’estetica più squisitamente retrò già emersa al meglio nel manifesto d’intenti “Youth And Lust” dello scorso album. “Confetti” su tutto è una gemma di synth-pop dal sapore gotico.
In “Cherish The Light Years”, anche per copertina dal retrogusto demodè, si è subito pervasi da un’atmosfera 1981-84. In “Villains Of The Moon” scorre il sangue algido degli Human League e dei primi Depeche Mode. Come se gli Ebb Nitzer scrivessero un brano per Natale. Il pop senza speranze di “My Dad Is Dead” incontra e si scontra con i guizzi in levare degli Yazoo e le spigolose trame dei Visage. Anche negli Eighties più underground in fondo ci sarà stato qualche mese d’estate. L’anima meno pessimista dell’Eisold in love prende quindi il sopravvento in “Icons Of Summer”. Per poi inabissarsi nelle aride lande industriali di “Burning Sage”. In “Underworld USA” fonde e sintetizza le due anime in apparente conflitto. Cupi groove EBM, sintetizzatori atmosferici, pathos e strazio vocale ineluttabile. Cinico, escatologico, post-romantico, inguaribilmente crepuscolare. “Cherish The Light Years” è l’urlo di un prigioniero del presente che per un attimo ha visto la luce.
I’ll carry your cross now baby
It’s a blasphemous world today
We are the tender missionaries
From the underworld, USA
75/100
(Piero Merola)
27 aprile 2011