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Questa recensione è scritta a partire da un assunto, per così dire, metodologico. Che è il seguente: “Person Pitch”, il più recente album di Noah Lennox alias Panda Bear, è stato uno dei capolavori della musica contemporanea. Quando, fra qualche tempo, si parlerà di ciò che è stato prodotto a cavallo tra anni zero e anni dieci, non si potrà fare a meno di citare l’opera del ragazzo della Pennsylvania: “Person Pitch” mostrava infatti le stimmate del grande artista attraverso un suono complesso, stratificato, denso ed elaborato, tanto immediatamente riconoscibile, quanto marcatamente indipendente dalla proposta Animal Collective, seppur ad essa senza dubbio legato.
Com’è noto questa non è una opinione isolata, e al momento dell’uscita il disco è stato oggetto di una profusione di elogi da parte della critica: ma in questi tempi caratterizzati da derive postmodern d’accatto, o, nella migliore delle ipotesi, fuori tempo massimo, risulta molto difficile stabilire ciò che è importante e ciò che non lo è, produrre, in altre parole, giudizi che resistano oltre le due settimane di chiacchiera intorno all’album d’attualità.
Non è un caso che l’uscita di “Tomboy”, il successore di “Person Pitch”, sia stata rinviata più volte nel corso degli ultimi dieci mesi, nonostante alcuni pezzi siano noti già da tempo, più o meno dall’esibizione del nostro al Primavera Sound ultimo scorso. Siamo in effetti di fronte ad uno di quei dischi che seguono un’opera capitale: farne emergere qualcosa di buono è tradizionalmente operazione alquanto complessa.
Il primo elemento che salta all’occhio di questo “Tomboy” è la struttura radicalmente differente rispetto a “Person Pitch”: se quello era basato su due grandi suites centrali, le spaziali “Bros” e “Good Girl/Carrots”, e completato da alcuni notevoli pezzi brevi, questo ha un andamento più lineare, in una ricerca che sembra mirare ad un ritorno verso una forma canzone più tradizionale. La cornice non deve però ingannare: il suono di Noah Lennox resta infatti un insieme di rumori, riverberi, tribalismi che, condensati in un album di circa cinquanta minuti, rendono l’ascolto ancora una volta piuttosto impegnativo ed apprezzabile solo dopo numerose ripetizioni. La prima metà risulta complessivamente non lontana dalle atmosfere da comune urbana di “Person Pitch”, un impasto di basi elettroniche, talvolta tendenti all’industriale, talvolta vicine al funk, e voci filtrate, psichedeliche e piene di una eterea nostalgia, esaltate da un gusto per la melodia che non può non ricordare, ovviamente, Brian Wilson: la capacità, in altre parole, di far emergere l’aspetto pop di ogni canzone anche in contesti profondamente eterogenei e apparentemente irriducibili rispetto ad esso. “Surfers Hymn” e “Last Night at the Jetty” riprendono il filo mai spezzato di “Take Pills”, mentre “Slow Motion”, il vero capolavoro dell’album, contamina l’istinto doc Panda Bear con influenze trip-hop e, come detto, funk. Senza cedere alla tentazione del copia e incolla, sembra che fin qui il nostro cerchi una evoluzione ragionata, una maturazione che non stravolga il senso di ciò che si è prodotto in precedenza, anche attraverso l’aiuto al mix di Pete “Sonic Boom” Kerber, la cui collaborazione è stata, come ha dichiarato Lennox in alcune interviste, profonda e preziosa. Quanto tangibile non è semplice stabilirlo.
La seconda metà dell’album, diciamo a partire dall’enigmatica “Drone”, ribalta invece il discorso: non siamo ancora ad un mutamento compiuto e realmente tangibile, ma qui la spiaggia metropolitana con grattacieli sullo sfondo, la danza intorno al fuoco urbano, lo skatepark hippie, sembrano lasciare il posto a ciò che di veramente hipster si annida nella mente del Lennox, e che lo rende un autentico intellettuale del nostro tempo. La profonda consapevolezza dei propri mezzi che rivelano pezzi come le difficilmente assimilabili “Alsatian Darn” e “Afterburner”, e le oscurità synth di “Drone” e “Scheherazade”, non fanno ancora emergere la canzone da ricordare, la traccia simbolo dell’avvenuta rottura, ma indubbiamente danno il senso del divenire in atto nel processo creativo del ragazzo attualmente residente a Baltimora. Uno sviluppo estremamente controllato e cosciente: in questo senso egli è, appunto, una delle poche vere menti pensanti della musica contemporanea.
Siamo di fronte, chiaramente, ad un album di transizione, come forse sono condannati ad essere tutti quelli che seguono il pieno affermarsi delle capacità creative di un artista. Un album di canzoni, di buone ed anche eccellenti canzoni, in grado di fotografare uno stadio di un percorso che necessita probabilmente di qualche tempo ancora per dispiegarsi completamente. Qualcosa come la sezione di un tronco, o l’istantanea di un atleta nell’atto sportivo. Un album che, in ultima analisi, non raggiunge le vette avanguardistiche e sperimentali del suo predecessore, ma che mostra un individuo in movimento, uno studente di conservatorio underground.
La casa di Noah Lennox non è più, quindi, una baracca di legno in riva al mare, disadorna e circondata da una spiaggia piena di sole, è piuttosto un appartamento in centro, collocato ai piani alti di un grande palazzo di mattoni, dal quale la costa è visibile solo in lontananza: rimangono intatte sulla scrivania le luci del laptop acceso e la catasta disordinata di camicie a quadri.
81/100
(Francesco Marchesi)
18 Aprile 2011