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Lungo un percorso artistico timido ed inusuale, l’introverso Cass McCombs ha fatto di tutto per distaccarsi dal cliché tipicamente dylaniano che troppo prematuramente gli è stato affibbiato. Pur senza mai raccogliere il plauso unanime della critica, il songwriter californiano ha saputo conquistarsi una certa nicchia, diventando presto oggetto di culto tra gli appassionati di un cantautorato fine e classicheggiante. Alla ricerca del suo lato piú anacronisticamente demodé, Cass McCombs torna ora, a distanza di 2 anni dal precedente “Catacombs”, con un album cupo e indecifrabile, immerso dall’inizio alla fine in uno spleen decadente dai contenuti densi ed enigmatici. Benché non si fatichi a riconoscerne subito lo stile impeccabile, “Wit’s End” risulta ad un primo impatto particolarmente indigesto. Composto da soli 8 brani, che superano quasi tutti ampiamente i 5 minuti di durata, il lavoro raggiunge il suo picco di verbositá nella conclusiva “Knock Upon The Door” (9.24’!) e nella torbida “Memory Stain” (7.23’!). Sembra quasi che Cass McCombs provi gusto nello sfidare l’orecchio dell’ascoltatore con i suoi foschi teatrini dai tratti sfumati ed avvolgenti,che ruotano su se stessi in un circolo melodico fatto di spazi vuoti ed accordi reiterati, di armonie talmente tetre e ripetitive da spingere ad implorare qualcosa che elevi il ritmo del disco, anche solo di poco.
Come è prevedibile, una ruota che gira sempre alla stessa blanda andatura dopo un po’ finisce per cigolare, tanto che inizialmente la tentazione di etichettare “Wit’s end” solo come un’elegante ma monotono esercizio stilistico è forte. Eppure è proprio allora, all’ennesimo ascolto, che l’ultima fatica di Cass Mccombs inizia a penetrare sotto la pelle, rivelando lentamente la sua vera natura, che é quella di un disco fatto di sottigliezze e di fini ricami, a tratti narcotico nella sua ciondolante ripetitivitá, ma terribilmente misterioso ed affascinante.
Il primo brano a svelarsi è proprio la traccia iniziale, “County Line”, sinuosa chambre ballad che vede Cass passare con disinvoltura da un’inflessione vocale lennoniana allo splendido falsetto del chorus, per un pezzo splendido, che rappresenta probabilmente uno dei picchi dell’intera carriera del cantautore californiano. La successiva ”The Lonely Doll” è poco piú di una lieve cantilena che si specchia nel suo dolce incedere per tutti i suoi 6’ di durata. Nessun ritornello, scordatevi un qualsiasi cambio di tono: o la si odia o la si ama.
Lo stesso discorso vale per “Buried Alive” “Shadow Song”. Nella prima, sorretto da una desolata chitarra e da fluttuanti linee di mellotron, il musicista riesce ad evocare oscure immagini allegoriche, senza abbandonare mai la sua morbida tonalità di voce. Nella seconda Cass si muove tra suggestioni alla Leonard Cohen e scarne note di pianoforte, per quello che è probabilmente il brano piú difficile del lotto.
Per apprezzare la musica di Cass McCombs è necessario operare una scelta: se si decide di perdersi negli eterei vagheggi che la compongono sará impossibile non innamorarsi dell’ermetico fluttuare di “Memory Stain”, che si dipana lentamente per sciogliersi infine in una coda strumentale da brivido (è un clarinetto basso quello?). Allo stesso modo riuscirà difficile resistere alla suadente melodia di “Hermit’s Cave”, prima dell’interminabile “A Knock Upon The Door” che chiude in modo epico il disco.
Un album come “Wit’s End” merita una pazienza che, comprensibilmente, non tutti avranno voglia di concedergli. Dando alle stampe un’opera del genere, Cass Mccombs sceglie definitivamente di celarsi nella cupa foschia che da tempo lo avvolge, intrappolandolo in un anonimato dal quale probabilmente non uscirà mai. È cosí che nascono le leggende, a volte.
75/100
(Stefano Solaro)
15 maggio 2011