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Alex Zhang Hungtai non è giovanissimo. Avrebbe tutta l’aria di una delle comparse del gangster-movie “Monga” di Doze Niu. Lui però nella truce Taipei degli anni ’80 è stato a malapena adolescente. Poi volo di sola andata per il Canada, destinazione Montreal. Da immigrato un po’ disadattato e rassegnato all’anonimato, alienato dalla vita in metropoli fin dai tempi di Taiwan, a promessa della scena indipendente nord-americana. A 30 anni sarebbe fuori tempo massimo vista l’età media dei suoi colleghi. Ma il sistema d’integrazione canadese ha voluto dargli una chance in più. Non capita tutti i giorni per uno Zhang Hungtai essere accostato a mostri sacri del suo decennio di nascita quali i Cramps e i Suicide.
Al misterioso personaggio è bastato scegliersi un nome stupido quanto efficace. La gustosa assonanza con bitches dietro l’angolo fa la sua parte. E un singolo di lancio dalla fatale andatura surf, “Sweet17”. E finalmente, al terzo tentativo, l’album d’esportazione. Sufficientemente malato e decadente a partire dal titolo da rievocare quell’atmosfera noir da Jarmusch, una delle sue influenze più evidenti e sbandierate.
Le “Badlands” di un geek del cinema in fascia protetta come lui, sono popolate da flashback e visioni notturne degne di “Strade perdute”. Un opprimente lo-fi da night-trip a velocità alternata. Tra estasi Fifties care al Badalamenti di Twin Peaks (“Lord Knows Best” ha dei richiami da brivido alla serie e al grande compositore) e fughe in moto da fiero ghost-rider, l’odore della strada pervade la mezzora scarsa di musica dell’album. In “Speedway King” aleggia per davvero lo spirito visionario di Alan Vega e Martin Rev.
Depurata dall’acida peculiare farfisa, la lezione dei leggendari Suicide scorre convulsa in desolanti radure alla conquista del West. Si imbatte in sordidi motel dove “True Blue” riecheggia in filodiffusione. Sembra un nastro mal registrato di un’improbabile meteora dei gloriosi anni ’50. E poi torna la strada, appunto in “Sweet 17”. Voluttuosa e minacciosa. Drum machine sudicie e ossessive. Voce straziata. Chitarre disturbanti. I riverberi di “Horses” evaporano tra odori di gomme usurate e olio bruciato. “A Hundred Highways” amalgama l’anima psichedelica figlia di Jesus & Mary Chain e Spacemen 3 e la delirante nostalgia boogie-woogie da nipote diseredato di Roy Orbison. E infine l’agonia, i tormenti luciferini di “Black Nylon”. Strumentale sabba da bad trip lisergico che scivola incolpevole nella catarsi di “Hotel.” Il luogo del delitto, tetra e simbolica destinazione finale. Campane a morto. Echi strozzati. Nulla può accedere, tutto è già successo.
Il conturbante Dirty Beaches puzza di vecchio come i tratti in dissesto della vecchia
77/100
(Piero Merola)
9 maggio 2011