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Sperduti tra capannoni industriali, magazzini di materiale edile e trattorie popolari, dove Roma si fa prima periferia, poi borgata, infine palude, abbiamo faticato non poco a trovare il Lanificio 159, feudo dell’ambiente art-chic capitolino, insolitamente dislocato nella suburbia. Entriamo quando ci viene consentito (non prima delle 23), vedendoci requisire i biglietti all’ingresso probabilmente per riciclarli con gli avventori che ne erano ancora sprovvisti.
Notiamo subito che il palco è montato in modo da avere alle sue spalle metà della sala, la qual cosa ci sembra un’ottima trovata se si vuole accalcare gente dove non ce ne sarebbe il bisogno (con che effetti, vedremo poi). In compenso, all’esterno troviamo una terrazzina graziosa che si affaccia sull’Aniene (del quale la mancanza di luna e stelle ci ha risparmiato l’aspetto putrido) e un traliccio dell’alta tensione (se solo a Manhattan avessero l’Aniene e i tralicci, sai che loft…), dove è stato fin troppo facile rimanere intrigati da volti misteriosi che gli eventi non ci consentiranno, come al solito, di inseguire.
Ad aprire le danze pensano i trevigiani Vermillion Sands, validissima compagine che, in venti minuti scarsi, propone senza troppe cerimonie e con approccio spensierato le canzoni del suo recente omonimo album, molto apprezzato da queste parti e a proposito del quale qualcuno ha giustamente osservato: “I Vermillion Sands le plasmano (le canzoni) e ce le restituiscono per quei deliziosi jingle-jangle folk-country-blues che sono, tra contrabbassi, banjo e organi che speziano un suono garage elettro-acustico esemplare. Quel che ne viene fuori è molto meno settoriale di quello che si potrebbe pensare.”
Le quattro Dum Dum Girls si presentano, come previsto, in tenuta funeraria, affilate come coltelli e avvolte in un nero sudario di pizzi, calze mozzafiato e giubbottini di pelle garage-punk omologata. Attacca il primo pezzo e si intuisce quasi subito come lo spettacolo offerto da queste quattro esili ninfette tenebrose sia il risultato di un’estetica complessiva perfettamente congegnata, nella quale nulla pare lasciato al caso e tutto ciò che si vede va di pari passo con ciò che si ascolta, come trovandosi catturati tra due specchi disposti uno di fronte all’altro. Il repertorio spazia dalle primissime rare incisioni fino ai brani dell’ultimo ep, transitando per anticipazioni del nuovo lavoro previsto, pare, entro la fine dell’anno e per i pezzi più famigerati di “I Will Be”. Melodie beatamente spectoriane si frantumano e ricompongono (scandite da tempi più frenetici di quanto li ricordassimo) contro muri di feedback e riverberi assassini. Lo voci risultano quasi del tutto inghiottite in un rimbombo saturo e sferragliante e la languida batterista, dalle retrovie, tiene botta con stile mirabilmente fluido e tocco sensuale. Il tenero romanticismo di certi momenti più delicati lascia quasi sempre il passo ad affondi che puntano dritti alle gambe, piuttosto che al cuore, ma il gruppo dimostra una misura consapevole, sprigionando tutta la forza persuasiva di un concetto stilistico che sta tra il garage, il bubblegum-pop dei primordi, certo indie-pop inglese lentigginoso e il punk meno intellettualizzato. Le movenze vengono ridotte al minimo, così come le parole tra una canzone e l’altra, tuttavia il quartetto pare rispondere alle logiche ferree di un marchingegno gestuale finemente calibrato, quasi recitando all’unisono una formula vagamente rituale che magnetizza l’attenzione del pubblico.
Una cover finale della smithsiana “There Is A Light That Never Goes Out” (a quanto pare eseguita solo a Roma, in questo breve tour italiano) manda a casa tutti felici e contenti, lasciando la sensazione che questo gruppo riuscirà a vivere di vita propria anche dopo l’inevitabile fine della moda che lo ha, in un certo senso, reso possibile.
(Lorenzo Centini & Francesco Giordani)
3 Maggio 2011