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Quando pensi che per intervistare Paolo Benvegnù, artista colto e raffinato, potrebbe tornarti utile quel vecchio pacchetto di sigarette che hai nascosto in cucina circa un anno fa, Paolo ti sorprende salutandoti amichevolmente dall’altra parte del vetro di una porta che ti divide da lui; scende subito dal palco su cui sta iniziando le prove del suo soundcheck modenese e ti bacia la mano dicendoti: “Piacere Paolo, arrivo subito. Non voglio farti aspettare”. Trovo immediatamente una marcata somiglianza tra lui ed ‘Hermann’ , l’ultimo suo straordinario disco: affascinante, misterioso e così vero nel raccontarsi. “Se non avessi avuto l’aiuto dei miei sodali” – mi dice mentre si accende una sigaretta al sole – “di questi malavitosi che suonano insieme a me” – continua – “tutto ciò non sarebbe mai stato possibile. Siamo un vero gruppo! E fare questo disco è stato bello soprattutto dal punto di vista umano perché sia io, che loro, avevamo delle cose da dire e per certi versi è come se avessimo scritto un libro. Ognuno con i propri capitoli, con le proprie specifiche modalità”.
In effetti in Hermann c’è davvero un po’ di tutti noi. E’ quello che mi ha trasmesso subito questo disco. E come potrebbe essere diverso…. Hermann narra dell’esistenza. Ma trovo che ci sia tanto anche di te sai, ti assomiglia questo uomo dalle mille interessanti sfaccettature.
Sì, in effetti questo disco vuole un po’ presuntuosamente narrare la storia dell’uomo. Ed è vero, c’è anche un po’ di Paolo Benvegnù qui dentro. Ma come ti ho detto è stato molto importante anche la sinergia con il resto della band. Forse dovrebbe essere il compito di persone più sagge, parlare di certi argomenti, noi non lo siamo di certo (ride) ma è stato come uscire da noi stessi lavorare alla sua realizzazione. Nei dischi precedenti c’era una scrittura molto personale e soggettiva mentre Hermann, è un album di apertura in questo senso, dal punto di vista dello sguardo. E’ come se avessimo utilizzato una macchina da presa per farlo, una macchina che spazia tutto intorno. E questo per me è un passo in avanti, altrimenti, sarei stato sempre ossessionato da me, dai miei spostamenti. E poi, la cosa che abbiamo pensato, piuttosto scioccamente, è quella che una volta esaurito il problema della sopravvivenza, del procacciarsi il cibo, l’uomo dovesse concentrarsi sui problemi. Gli stessi, da sempre. Come l’incapacità di armonizzare se stessi con il resto del mondo. Faccio sempre la metafora della città di Taranto per spiegare questo concetto: che ha un mare piccolo al suo interno, ed un mare enorme al suo esterno. E questa città è, metaforicamente parlando, quello che non riusciamo ad essere, a fare. Parlo del riuscire a gettare un ponte tra noi e l’esterno. A volte ci sono gesti sconclusionati, sbagliati, crudeli.
Che si parlasse del mondo occidentale lo si intuisce anche facendo attenzione allo stesso nome del personaggio che da il titolo al disco.
Hermann è un nome teutonico, europeo e, cosa più importante, è prettamente tedesco anche se di origine ebraica. E’ un rimando al secolo breve, all’idea che persecutore e perseguitato siano sempre presenti in esso, sotto forma della stessa persona; che è anche la chiave di lettura del pezzo ‘L’Invasore’.
Un punto di vista interessante. Tutto il disco d’altra parte è impregnato di rimandi colti…
Le tue parole mi lusingano, grazie. E’ nato tutto abbastanza naturalmente in verità. Una volta trovato il filo rosso è stato infatti veloce il passaggio dalla stesura dei testi alla registrazione in studio. La cosa forse più difficile è stato imparare le parti, entrarci veramente dentro, parola per parola. Ma mi piace questo aspetto! Quando abbiamo finito di registrare mi sono sentito un po’ come uno scolaretto, che deve reimparare tutto. Credo che questa cosa mi sia rimasta (ride). Quando dobbiamo suonare infatti, mi dico sempre: ‘A quasi 50 anni non hai ancora imparato niente?!’ Per noi Herman è un disco che apre la strada, vediamo dove ci porterà e se riusciremo a percorrere questo viaggio con letizia.
Parliamo della copertina. Hermann è un vecchio uomo barbuto con delle mani da bambino/a. Con le unghie colorate. Un rimando all’uomo, alla donna, all’infante. Mi è piaciuta molto l’idea di raffigurare in questo modo l’essere umano.
La figura dell’uomo anziano riporta alla mente degli ascoltatori l’idea di saggezza, di esperienza. Mettergli le mani di una bambina significava, per noi, riprendere l’idea che tutti gli uomini sono figli di una madre. Questa è la radice, non sono degli uomini ma anche della terra. Era fondamentale esprimere appieno la raffigurazione dell’uno. Se mi immagino la saggezza me la immagino sia madre, che padre, che figlia. Sempre figlia però. Perché l’unica vera spinta creatrice della terra è la donna. La realizzazione grafica è opera di Mauro Talamonti e Francesco Prosperi di Capicoia e ci tengo a nominarli perché senza di loro questo progetto non sarebbe la stessa cosa. Abbiamo voluto dare importanza, oltre che alla musica, all’aspetto grafico e a quello visuale presente nei live.
Hai citato la figura femminile. Io adoro la traccia ‘Andromeda Maria’. Me la sento vicina.
Quel pezzo piace molto anche a me, perché ha il senso dell’attesa, dell’essere imprigionati, come Andromeda… il senso dell’apertura al desiderio, che non è mai cattivo! O quantomeno, in valore assoluto, è sempre pieno di amore, sempre. Che tu possa aspettare la persona più meravigliosa al mondo o un assassino, che è proprio il tuo compagno. Una forma di amore molto più disillusa ma altrettanto vera e forte. Basta dire che non sempre amiamo ciò che ci fa stare bene, no? Questa è l’idea che regge la canzone.
E quali altri figure mitologiche ti affascinano? Nel vostro disco ce ne sono diverse.
Mi piace molto la figura della madre e perciò della donna, che per me è la vera spinta creatrice del mondo. Spiritualmente mi identifico in questa figura materna. Mi piace immaginarmi anche come un animale però, il cane. (ride)
Paolo Benvegnù parla spesso di amore. Qui come nei vecchi dischi. Hai stregato persino Mina, che ricordiamo, ha interpretato egregiamente la tua ‘Io e Te’.
Lo chiamano amore perché la stessa parola deriva da quella latina ‘a-mors’ , che significa ‘senza morte’. Se è vero che l’uomo da sempre fugge dal dolore e dalla morte, l’amore rappresenta l’antidoto vitale. ‘Labbra’ (il suo vecchio disco) è la descrizione di un’amore tormentato ad esempio, ma credo che per questa parola non basti una descrizione. L’amore è qualcosa che va al di là delle parole. E’ una spinta vitale indescrivibile, che sta nella carezza di una madre, nella generosità, come nell’altruismo verso chi soffre: una forma di amore che non c’è più familiare in quest’epoca opulenta. Le difficoltà e la povertà uniscono maggiormente le persone ed è per questo, che io e i miei compagni, ci auguriamo che un po’ di sobrietà possa salvare il mondo da questo bieco post-capitalismo.
Quella di questa sera è una delle numerose date del vostro nuovo tour. Ti emoziona ancora suonare o preferisci la dimensione dello studio di registrazione?
Mi piace molto suonare dal vivo ma se potessi, se avessi la possibilità economica, preferirei restare chiuso in una biblioteca per studiare, imparare cose nuove. Senza dover per forza finalizzare il sapere ad un disco. I ragazzi che suonano con me, invece, sono giovani e pieni di energia, amano i live e se non decidono di cambiare cantante credo che calcherò ancora diversi palchi con loro. Ed è giusto così, visto che loro mi hanno dato tanto.
Spiazza davvero questo tuo modo di vivere e vedere le cose. Trovo bellissimi i tuoi dischi quanto ammirevole la tua umiltà, semplicità, empatia. So che hai lavorato con Manuel Agnelli ad un progetto per sostenere la musica indipendente dei giovani musicisti italiani gli stessi, però, che a volte trovo superficiali e snob nel modo di interpretare il termine ‘indie’.
Capisco benissimo quello che vuoi dire. Credo che una persona sia forte, quanto più riesca ad essere vicina alle cose che dice, che fa… alla sua essenza insomma. Per quanto mi riguarda non posso pensare, e non penso, di avere tanto talento o meglio, ho quello dell’impegno, che è una cosa diversa da quello fiammeggiante. Ho questo e così mi esprimo. So che per tante persone quello che faccio è troppo sentito, troppo epico. Però sono così e sono coerente con me stesso e con il mio lavoro. Coerenza non è merito, talento. Ma se dovessimo vederci tra un anno sono sicuro, che mi ricorderei delle tue parole, di questa intervista, di ciò che pensi. Di ciò che sei! Sono fortemente convinto che sia importante andare verso l’altro. Io lo faccio, in maniera molto spontanea e fisica. Non posso essere altrimenti e se gli altri sono diversi io, li rispetto. Credo che chi fa questo mestiere oggi, debba essere eticamente ineccepibile perché altrimenti sei solo un intrattenitore. E va bene. Ma a me interessa essere uno scrittore o meglio ancora, in futuro, un contemplatore che guarda le cose, senza commentarle; essendo comunque felice. Ecco quello che vorrei. (sorride)
(Gloria Annovi)
11 maggio 2011