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Non era mai venuto in Italia Sufjan Stevens. Neanche mezza volta. Sembra strano a crederci, eppure è così. Sarà forse per questo motivo che il saturnino compositore del Michigan ha deciso di sbarcare nel Belpaese a bordo di un’astronave roboante e maestosa. L’ha detto subito, con la sua voce pacata da professore un po’ “toccato”, dopo il brano inaugurale (una bellissima “Seven Swans” eseguita neanche fosse “Brain Damage” dei Pink Floyd), in un italiano ammirevolmente poetico e bambinesco: di solito mi occupo di canzoni popolari, ma stasera, affiancato dalla mia ciurma di cosmonauti squinternati, sarò come il capitano Kirk ed eseguirò musica pop cosmica. Lo spiegamento di mezzi è a dir poco sfarzoso. Innanzitutto un ensemble di dieci elementi (tra cui anche il sodale/ protetto DM Stith, “voce di unicorno”, che si esibisce in apertura), più simile ad un piccola orchestra per balere da ultimo tango ad Alpha Centauri: due batteristi, tastiere, trombe e tromboni, e, soprattutto, una coppia svolazzante di ninfette pestifere che ballano e cantano, cambiando travestimenti con la velocità di un Fregoli a batterie. Tutti, a partire dall’ammiraglio “Sufjano Stefani” (come si presenta al pubblico) avvolti in tute spaziali fosforescenti che a tratti sembrano quasi pigiami per una cucciolata di bambini capricciosi che si rifiutano di andare a dormire, in attesa che arrivino gli alieni (e arriveranno!) e li riportino in un’Isola che non c’è, eppure deve esserci.
Il mirabolante show-astronave che Sufjan costruisce sulla musica di “The Age of Adz” si rivela essenziale per comprendere meglio l’album, ne diventa comple(ta)mento in senso visivo, spaziale, fisico. La performance è infatti totale, Sufjan offre il proprio corpo alla musica attraverso i costumi fosforescenti e le coreografie che accompagnano ciascun brano: come spiega appena prima di “I Walked”, si vuole riappropriare della pulsazione ritmica, della sensualità con la gioia della riscoperta. Quello che ne salta fuori è una sorta di messa o esorcismo collettivo, sempre in bilico tra la farsa pacchiana e una lezione variopinta di metafisica delle grandi sfere, con raggi laser e schermi che si sovrappongono descrivendo vertiginose geometrie tridimensionali che incorporano il pubblico all’interno dello spettacolo e lo schiodano dalla sedia, per poi dissolverlo in una vibrazione danzante di stupore all’unisono. Sufjan, dopo un periodo di malattia e profondo ripensamento personale, riscrive la sua “Fantasia” e da fondo al suo estro disneyano, contaminandolo con il musical (da “The Rocky Horror Picture Show” a “Hair” le reminiscenze si sprecano) e la fantascienza, i Flaming Lips e i Thunderbirds, con un fare dinoccolato degno di Ziggy Stardust quanto di Justin Timberlake (che balletti, e soprattutto: che autotune!!!). I pieni orchestrali si alternano ai vuoti solo voce e chitarra e, tra un parrucca e l’altra, l’impressione è quella di trovarsi di fronte ad una pantomima struggente di marionette che cantano il sublime e il ridicolo della condizione umana universale.
Sufjan Stevens, uomo e artista, parla dello stare bene (“I want to be well!”) dopo il dolore della perdita (la fine di una relazione, la malattia che debilita), nella continua alternanza di forze che sospingono la vita fra il suo inizio e la sua fine, e lo fa nel linguaggio in cui eccelle: la cultura popolare, l’arte pop, un’enciclopedia immensa di simboli da cui attingere con la voracità e l’estro che lo contraddistinguono. Sceglie come alter-ego Royal Robertson, l’artista pop che appariva sull’artwork dell’album (“The Age of Adz” è il titolo di un suo dipinto) e che popola di mostri alieni e supereroi i video proiettati durante il concerto: con una spiegazione prolissa ma illuminante, Sufjan racconta che Royal metteva nel suo immaginario di fumetti e B-movies i demoni che finirono per consumargli la vita; una sorta di Don Chisciotte pop in cui Sufjan si riflette, tutto impegnato a mettere a fuoco sé stesso e i propri limiti attraverso ali finte e adesivi fluo sulla faccia.
Al di là dell’aspetto concettuale, quello che si offre al pubblico del Comunale è uno spettacolo travolgente, barocco, ubriacante come pochi se ne sono visti: il lightshow costruisce vortici ipnotici mentre le sinuose coriste-ballerine seguono i movimenti del leader e gli altri nove membri della band cavalcano il magma sonoro fra pieni orchestrali e sussurri elettronici. Il crescendo di suono e luce raggiunge il suo culmine con l’epica “Impossible Soul” che vede, durante i suoi oltre 20 minuti, Sufjan trasformato in un missile d’argento, un duetto con la corista arrampicata sui palchetti del Teatro e il pubblico ormai in delirio che si alza dalla platea a ballare. Mentre i raggi di luce si rifrangono e moltiplicano come coriandoli sulla platea, rimbalzando dalla sfera di metallo che Sufjan Stevens fa roteare in grembo al suo ultimo travestimento, il confine tra realtà e finzione si assottiglia fino a diventare indistinguibile e nessuno sa più esattamente dove si trovi o cosa stia succedendo.
Chiude, forse inevitabilmente, “Chicago”, tra palloni colorati che come mondi o universi possibili entrano in collisione tra di loro, spinti dalle mani del pubblico tese verso l’alto, e mentre le parole recitano “I made a lot of mistakes/ All things go all things go” pensiamo a tutti i nostri errori, tra i quali, per fortuna, non c’è stato almeno questo: non essere in quel bellissimo teatro a Ferrara la sera del 24 maggio 2011.
(Stefano Folegati & Francesco Giordani)
foto di Pelòdia
31 Maggio 2011