Share This Article
Sono ancora elettrizzato. Effetto, sensazione, risultato dei primi ascolti di “Suck It And See” degli Arctic Monkeys. Non so se e quanto durerà, ma è stato folgorante. Un po’ come ai vecchi tempi, con gli Arctic. E’ che la virata desertica di “Humburg” era stata troppo decisa, quello era un disco che dimostrava che la band di Alex Turner era maturata di un botto ed era riuscita pure a contaminarsi con gli States ma in cui il gruppo aveva cercato di fare quello che, forse, non era nel suo dna. Come a dire che si riesce meglio in quello in cui si è portati, quello che è la propria anima più profonda. Che poi “Humburg” aveva subito disorientato ma mostrato, alla lunga, la sua profondità, seppure leggermente sforzata. Qui è il contrario.
“Suck It And See” riporta le Scimmie Artiche a come le abbiamo conosciute quando ci siamo scontrati nel dicembre 2005 (e ce la tiriamo ancora un pochino per averle segnalate di pancia senza pensarci su un attimo, vedi recensione del singolo “I Bet You Look Good On The Dancefloor”), con meno velocità ma con maggiore consapevolezza. Parrebbe quasi di trovarsi di fronte a dei Blur di questo scorcio di inizio decennio, quei Blur che riuscivano – album dopo album – ad essere l’incarnazione più vera dello spirito british, migliorando sempre (al contrario del buco nero Oasis che marciva andando avanti). Ma sarebbe ingegneroso dover parlare degli Arctic Monkeys paragonandoli a qualcun altro: i quattro di Sheffield hanno già lasciato le loro orme nella hall of fame del rock inglese, è indiscutibile. E con questo album mettono un ulteriore punto certo alla loro storia.
La capacità di scrittura di Turner non può essere messa in discussione dopo gli innumerevoli progetti paralleli, da ultimo il suo ep solista (“Submarine”, 2011), ma sono comunque sempre sorprendenti le sue melodie cristalline. Tutta la bellezza del disco potrebbe essere compressa nei primi 40 secondi (“She’s Thunderstorms”): arpeggio con molto chorus che omaggia i Sixties, voce di Turner che accarezza tra accordi maggiori e minori (non so a voi che effetto vi fa, ma quando entra la sua voce per me è davvero il paradiso…) e partenza convinta e liberatoria di una batteria pari, un po’ “Politik” alla Coldplay ma ugualmente incazzosa. E l’approccio rock è stato mantenuto sol che se si pensi che è grazie agli Arctic Monkeys che questa generazione forse ha una sua “Song 2”: è “Library Pictures”, un classico istantaneo per il pogo, costruita apposta. Durata breve perché a pogare ci si sfoga ma ci si pesta pure, riff assassino, parte calma mediana per dare da rifiatare agli astanti e finale distruttivo in cui la regola principale è fermare la musica, continuare a cantare a secco e ripartire come se non si avesse suonato mai. Tra 10 anni si parlerà ancora di questa canzone, statene certi. Ma la “rabbia” degli Arctic è anche in pezzi come “Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair” e “All My Own Stunts”, dove tornano fuori evidentemente le lezioni di Josh Homme (che fa pure i cori nella seconda), insomma, non si è mica sopita.
Come ha giustamente notato il kalporziano Stefano Solaro, in questo disco “ci sono almeno 6 o 7 possibili singoli”, e si è detto tutto. Quello che riempie il cuore è che gli Arctic Monkeys non appaiono, nel 2011, degli imbositi ragazzotti già debosciati dal successo, vedi alla voce Strokes, ma continuano a dire la loro in una maniera encomiabile e ad altissimi livelli.
E la somiglianza fisica sempre più marcata di Alex Turner con Paul Weller ci dice che continueranno a lungo.
80/100
(Paolo Bardelli)
Collegamenti su Kalporz:
Arctic Monkey – Humburg
Arctic Monkeys – Favourite Worst Nightmare
Arctic Monkeys – Who The Fuck Are The Arctic Monkeys
Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not
Arctic Monkeys – I Bet You Look On The Dancefloor
17 giugno 2011