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Julianna Barwick ha evidentemente raggiunto la pace dei sensi. La sua. Con questo terzo full-lenght, scia pedante di ”Sanguine” (2007) e “Florine” del 2009, ci propina una messa in loop che stordirebbe anche l’ascoltatore più paziente. Se l’incursione nel bosco di Pan doveva affermarsi come esperienza onirica tra elfi, creature magiche, natura e paganesimo, il risultato è al contrario deludente. La sostanza di ”Magic Place” è infatti la ripetitività: 43 minuti alienanti di noia tutta terrena. L’assetto è minimal: free-folk giocato su linee monotòno di synth, fraseggi asemantici di drones e multivocals impalpabili (”Envelop” porta la croce di tutto il mellifluo lamento). La formula usata (glossolalia + synth riverberati) finisce col creare una sfaldatura percettiva tra l’abbandono sensoriale e lo stato vegetativo tout court. ”Magic Place” vive per lo più di astrazioni che non incantano, canti gregoriani ed echi narcolettici a perdere.
C’è troppa aria di derivativismo e claustrofobia, patina soffusa per accogliere un po’ di Panda Bear e Beach House inebetiti (”The Magic Place”, ”White Flag”). Inoltre tutto il solco ambient, da Eno al cuore diafano di Fursaxa, sembra qui stemperato in un grande dubbio concentrico: che di tanta pasta eterea non si riesca a coglierne il senso è materia di frustrazione, la sola aggraziata ”Vow” si salva dall’empasse statica dell’album.
Personalmente il ratto mistico non c’è. Cè una vaga nostalgia pre-cosmica per Enya e i suoi edulcorati inni celtici, e la sensazione, per la Barwick, di un salto nel vuoto con esigue prospettive di fuga.
55/100
(Simona Vallorani)
14 giugno 2011