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venerdì 27 maggio
live twitter della giornata
…in ordine di gradimento…
SUFJAN STEVENS (Auditori Rock De Lux)
Suonare in due delle tre giornate del Primavera come solo My Bloody Valentine e Portishead nelle recenti edizioni? C’è chi può permetterselo.
Suonare in uno degli auditorium con l’acustica migliore a orari scomodi costringendo il pubblico a saltare almeno due o tre esibizioni all’interno dell’adiacente Parc del Forum? C’è chi può permetterselo.
Dare la possibilità a solo 4mila fortunati (eufemismo) di essere sorteggiati per l’ambitissimo ingresso? C’è chi può permetterselo.
Costringere a una fila chilometrica gli irriducibili che sperano in qualche defezione casuale o dell’ultim’ora dei suddetti fortunati? C’è chi può permetterselo.
Far covare odio razziale ai suddetti irriducibili che vedono entrare sciampiste freakettone che credono sia il figlio di Yusuf Islam, fu Cat Stevens? C’è chi può permetterselo.
Fare un live di due ore e un quarto in un festival? C’è chi può permetterselo.
Indossare umilmente delle ali d’angelo in apertura di show? C’è chi può permetterselo.
Si potrebbe andare avanti per ore e parlare dell’incredibile live di Sufjan Stevens. Lo spocchioso e megalomane compositore di Detroit inscena un’opera degna di un replicante automatizzato e farsesco di David Bowie. L’ultimo album “The Age Of Adz” del resto ha spiazzato i suoi appassionati più tradizionalisti. Bizzarre deviazioni elettroniche (“I Want To Be Well”, “Get Real Get Right”), sinfonie visionarie (“The Age Of Adz”, “Too Much”), cadute folk nei meandri più malinconici della psiche (“Futile Devices”, “Sister”).
E poi il lungo omaggio con un discorso di tributo a Robertson, l’artista schizofrenico massimo ispiratore dell’ultimo album, il cui doppelganger cantautorale somiglia sempre più a Sufjan. Sciamano, camaleontio in pose e travestimenti, improvvisa balletti, ammutolisce il pubblico quando c’è solo la sua voce e la chitarra, dirige gli arrangiamenti per fiati e synth con la maestria di un direttore d’orchestra di chissà quale pianeta. Ballerine, raggi laser, giochi di luce da denuncia, silenzi assordanti. Fino a “Impossible Soul”. Ci si dimentica di essere in un teatro. Tutti in piedi un’improbabile festa di capodanno direttamente dal 2091 o da un’altra dimensione.
Concerning the UFO Sighting Near Highland, Illinois, Chicago. Palma di miglior live del Primavera nonostante una line-up del genere? C’è chi può permetterselo?
P.S. Ma chi si crede d’essere? C’è chi può permetterselo.
PULP (San Miguel)
Ok fare gli snob al Primavera. Se anche l’uomo a detta del quale le sue iniziali sono uguali a quelle di Jesus Christ, facesse sembrare Sufjan un umile manovale, non ci sarebbero comunque giustificazioni. I Pulp sono tornati dopo un decennio per far rispolverare dalla soffitta dei ricordi flash, impressioni e istantanee di un’adolescenza. Un’attesa che dura fino alle 2 di notte, con manipoli di fan assediati davanti alla transenna fin dal pre-Belle & Sebastian. Scene che poco si confarebbero al Primavera dove tutti sono presi da qualsiasi nome a caso nei palchi più decentrati. Ma è pur sempre Pulp-mania. L’unica mania nel festival del distacco. Jarvis Cocker ripaga attese e impellenze emotive con il solito show nello show. Con la differenza che nei suoi live solisti il carisma di uno dei migliori frontman contemporanei sopperiva alla pochezza delle canzoni. Oggi piovono giù con il giusto equilibrio classici sputtanati e meno sputtanati, senza la facile logica del greatest hits. “Do You Remember The First Time” ha un che di autocelebrativo, essendo stata scelta Barcelona come tappa del grande ritorno (Kalporz l’aveva previsto l’anno scorso…si sa, il Primavera è il festival dei desideri, come non sperare, a questo punto, in The Smiths 2021 e Stone Roses 2012?). E poi in un unico flusso di immagini e ricordi dissotterrati da chissà dove, i sussurri retrò di “Pink Glove” e “Pencil Skirt”, l’amaro in bocca di “Something Changed”. Viene da pensare che se vivessimo in un mondo migliore, gli stadi di tutto il mondo si riempirebbero per loro e non per U2 e Coldplay. Ma in fondo meglio così. Solo i britannici meritano di considerarli alla stregua di un fenomeno di massa che neanche il matrimonio reale. I Pulp e i loro ironici melodrammi esistenzialisti. La band, poi, per freschezza sembra incredibilmente ferma ai tempi di “Different Class”. O forse è il tempo a fermarsi in “Disco 2000” e “Babies”. Parola di Jarvis, rendiamo grazie a Jarvis (“Sorted For E’s & Wizz”, “F.E.E.L.I.N.G.C.A.L.L.E.D.L.O.V.E”, “I Spy”). Sempre sospesi tra il torbido e il faceto con quel sarcasmo che è marchio di fabbrica (vedi scritte in sovra-impressione sul sipario prima del loro ingresso sul palco), arrivano “Underwear” e “This Is Hardcore”. Con “Sunrise” provano a placare gli ormoni. Invano. Anche perché condividere l’evento con due svedesi che sembrano piovute del cielo come due comparse dà al tutto una dimensione ancora più ormonale. L’illusione di essere il più figo degli sfigati (o il più sfigato dei più fighi) personaggi dell’immaginario jarvisiano. “Bar Italia” e l’ineludibile “Common People” dedicata per l’occasione agli indignats di Plaza Catalunya brutalmente aggrediti dalle forze dell’ordine. “Razzmatazz” nel bis riporta tutti sulla terra.
All those stupid little things, they ain’t working, no they ain’t working any more.
Tutto così frivolo, e al tempo stesso così nostalgicamente vero e autentico.
TWIN SHADOW (Pitchfork)
Tra i grandi nomi e i classici della seconda giornata, sbuca fuori George Lewis Jr, aka Twin Shadow, protagonista di un incredibile album d’esordio, “Forget”. Mentre si fischiettano ancora gli anthem dei Belle & Sebastian che da un quarto d’ora incantano il palco San Miguel, migliaia di noncuranti snob sono lì giù nel molo Pitchfork. La convinzione di assistere al live-sorpresa del Primavera non è disattesa. Il belloccio d’origine dominicana sa dare una sferzata da club anche ai momenti più introversi dell’impeccabile revival Eighties. Da George Michael a Echo & the Bunnymen, con la freschezza degli ultimi Phoenix. “When We’re Dancing”, “Shooting Holes” sono già dei piccoli classici. Difficile negarlo. E poi “Castles In The Snow”, “Slow”. Tanto di cappello (non il suo da capo rabbino underground, vedi video).
JAMES BLAKE (Pitchfork)
Sempre in tema di nuove proposte, il giovanissimo talentuoso eroe soul del sottobosco dubstep londinese accompagna il tramonto con i suoi flash minimali. Scende un silenzio spettrale. M. Ward dal palco principale prova invano a disturbare l’avvolgente rito del posato Blake, timidamente alla postazione piano. Nell’anno di “The King Of Limbs”, la nuova via lattea per la musica britannica è tutta qui.
ARIEL PINK’S HAUNTED GRAFFITI (Pitchfork)
Si potrebbe discutere dei mesi (vedi discussione kalporziana) sulla qualità sostanziale del progetto del controverso biondino di Los Angeles d’origine ebraica e dall’aspetto così maledettamente simile a un Kurt Cobain versione sci-fi anni Ottanta. Il suo disco “Before Today” ha dei suoni orribili, non ha un filo conduttore rimescolando in un calderone splatter sonorità surf, wave, spy-movie soundtrack, rumorismo e funky. L’arte del brutto. Dadaismo. Nessuno pretende di ergerlo a icona del rinnovamento musicale californiano. Lui di certo no. Né tantomeno quei tipacci da c-movie della sua band. Né i presenti che saltano e si dimenano su quelle che sono ormai diventate hit indipendenti. Almeno negli States: “Beverly Kills”, “Round And Round”, la cover d’annata “Bright Lit/Blue Skies”. Francesco Marchesi e detrattori vari kalporziani: una risata vi seppellirà 🙂
DEERHUNTER (Llevant)
Di questo passo finiranno a suonare nella Rambla. Dopo la prima apparizione per pochi intimi all’ATP e la successiva promozione nel 2009 nell’arena dell’attuale Ray Ban, Bradford Cox e soci finiscono al secondo palco dei big, l’irraggiungibile Llevant. Ormai sembrano travolti da un insolito successo. I Deerhunter sono l’oggi, diceva Bardelli su Kalporz. Come dargli torto. Perfetta espressione dello spirito musicale del tempo. Senza strafare né darsi un’immagine più potente della loro proposta musicale, la band della Georgia è diventata una band simbolo. Una folla da U2 farà poco testo al Primavera. E invece emoziona più di due anni fa, non solo per la voce e lo sguardo alienato e intimorito di Cox. Lacrimuccia.
THE FIERY FURNACES (Llevant)
Sarà di parte, detto da chi nei suoi dj-set non spegne il mixer prima di aver infilato tre o quattro brani dell’ineffabile duo di Brooklyn. Però un live dei fratelli Friedberger è sempre un’esperienza irripetibile. Nella loro versione garage scazzata, destrutturano a dovere i loro classici. Irriconoscibili, dissacranti, lei mai priva di quel fascino enigmatico e al tempo stesso magnetico. Remember…
BATTLES (Ray Ban)
Sono le tre di notte inoltrate. C’è gente che deve dormire. Eppure ce chi nè ha ancora. L’arena si riempie fino all’ultimo metro quadrato disponibile. Si balla anche al di qua e al di là degli spalti. Senza Braxton le ipnotiche suite dell’inimitabile collettivo newyorkese perdono parte dell’incessante tribalità. Per immergersi in panorami dai tratti quasi tropical/calypso. L’elettronica accolta nel secondo album in uscita, “Gloss Drop”, dal vivo è sacrificata sull’altare dello stile Battles. Un baccanale che accompagna i più resistenti fino all’alba. La nuova discussa track “Ice Cream” per quanto trash e senza Matias Aguayo, è di uno sculettare gradevolissimo.
BELLE & SEBASTIAN (San Miguel)
Offuscati dal resto del cast (in fondo loro sono tornati in giro già l’anno scorso e il Primavera è il festival in tempo reale per eccellenza) e dal fenomeno Twin Shadow, gli scozzesi impostano il loro approccio live in chiave molto intima nonostante la cornice del palco principale. Cosa dire ancora dei Belle & Sebastian? Che andrebbero somministrati a tutte le donne incinte? E poi ancora messi in filodiffusione in ogni sala parto? E fatti ascoltare a tutti in incubatrice? E accompagnare i pargoli fino alla maggiore età? Comunque non basterebbe.
FORD & LOPATIN (Jagermeister/Vice)
Un po’ come James Blake e Kode 9 che deliziano il pubblico con un dj-set che si aggiunge in una giornata diversa allo show vero e proprio (a proposito, per colpa dei Pulp ci si perde il succoso set di Kode 9 performing Burial), anche Daniel Lopatin ricompare. Non nelle vesti di Oneothrix Point Never, ma al fianco di Joel Ford. I due ex-Games spingono sui synth e tirano su il tempo. “Too Much Midi” è un manifesto d’intenti a partire dal titolo.
THE NATIONAL (Llevant)
Duole ammetterlo, ma veramente tanto. La delusione contingente, non sostanziale, della giornata diventano loro. Troppa gente accalcata senza motivo, tra avventori, spagnoli chiacchieroni di passaggio. Volumi un po’ bassi e l’oscurità che tarda ad arrivare alle nove e mezzo, rendono la vita difficile. Matt Berninger non sembra al massimo, così dopo soli sei brani (“Start A War”, “Anyone’s Ghost”, “Mistaken For Strangers”, “Bloodbuzz Ohio”, “Slow Show” e la sempre incantevole “Squallor Victoria”) si sceglie di abbandonare la nave per andare da Ariel Pink. Con l’amaro in bocca anche perché intanto sul palco sale Sufjan Stevens per fare da controvoce in “Afraid Of Everyone”.
PERE UBU (Ray Ban)
Catechismo della new wave del giorno. I Pere Ubu ripropongono il loro trascuratissimo classico “Modern Dance”. Pogare sulla titletrack, “Non-Alignment Pact” e “Street Waves” è sempre cosa giusta e buona. Era il 1978, rendiamocene conto.
CARTE BLANCHE (Llevant)
Si rinuncia per amicizia alle traiettorie eteree di Lindstrom per tirarsi su con un sano fancazzismo electro per chiudere la seconda faticosa giornata di Primavera. Il duo anglo-francese, dj Mehdi + Riton, fa tremare lo Llevant e risucchia via gli ultimi neuroni e muscoli attivi. In attesa della seconda alba.
JASON COLLETT (Adidas Pro)
La menzione d’onore nel palco delle nuovissime proposte spetta a Jason Collett dei Broken Social Scene. Non si capisce cosa di nuovo ci sia nel componente della band simbolo della scena indie di Toronto. Nelle vesti di elegante cantautore da risposta a The Tallest Man On Earth è un perfetto sottofondo crepuscolare tra i drink e i lettini della press area. E sullo sfondo c’è il mare, mica l’Ontario.
20 giugno 2011