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Cala il sipario sulla prima edizione del Dcode Festival ed è dunque tempo di bilanci. La manifestazione, che aveva come intenzione primaria quella di riportare la musica di qualità a Madrid, è di sicuro riuscita in questo intento, ma non è mancata qualche ombra. Il problema sta principalmente nel fatto che la due giorni madrilena non si può ancora definire un festival nel senso comune del termine. E se lo è, vive ancora una sua fase embrionale. Da questo ragionamento è meglio partire per sottolineare quello che non è andato completamente. In primo luogo, la scelta di far suonare i gruppi alternandoli su due palchi praticamente uguali e uno a fianco all’altro. Magari una sistemazione anche originale, ma che toglie il fascino delle sovrapposizioni tra diversi palchi, croce e delizia di qualsiasi navigato festival goer. Allo stesso tempocostringe chi magari vorrebbe sentire gli Eels e i Band of Horses a sorbirsi per forza anche i My chemical romance, e viceversa. Altra scelta assai discutibile è stata quella di tenere solo due palchi all’aperto e iniziare a far suonare le band alle 17 se non prima, con una bella temperatura di 40 gradi all’ombra. Le scene dell’addetto al servizio d’ordine che bagnava le prime file del pubblico con una pompa hanno sinistramente ricordato i mega concerti stile Vasco e Ligabue di cui è costellato l’Italia, non certo i numerosi festival di qualità presenti in Spagna.
Le note positive però ci sono ed è giusto che se ne parli. Prima di tutto la proposta musicale che ha accontentato un pubblico assai vario ed ha offerto oggettivamente un’alta qualità artistica. Oltre a tutto non s’è registrata alcuna pecca a livello di qualità del suono e questo è molto importante. Ma vale la pena anche spendere due parole per il pubblico che ha tenuto un comportamento encomiabile, nonostante condizioni spesso assolutamente non agevoli dovute soprattutto al gran caldo.
Venerdì 24 giugno
La giornata di venerdì inizia nel primo pomeriggio, nonostante il gran caldo e del sole cocente che brucia il campo sportivo della Complutense. Del prato verde che si vede nelle foto del sito del festival rimangono solo pochi fili d’erba, per il resto è tutta terra polverosa. Il “Premio Coraggio” va agli spagnoli Toundra che tirando fuori un set più che dignitoso. La band ricalca a grandi linee il post rock di gente come Mogwai o Explosions in the Sky, in modo un po’ troppo scolastico forse. Alla fine l’enorme muro sonoro lascia storditi, ma forse è solo la calura pomeridiana. Dei gruppi successivi gli unici degni di nota sono gli Autumn Comets (che sono stati scambiati nell’orario, e per fortuna, con gli All Time Low). L’ensamble spagnolo che quest’anno ha pubblicato il disco “A trampoline perfect jump”, mette in scena un folk rock mescolato a tanti altri elementi che risulta piacevole e melodico. Una prima sorpresa in positivo arriva dagli statunitensi Foster the People. Se dai solchi dell’album “Torches” la band californiana sembra in tutto e per tutto un gradevole gruppo pop, dal vivo è davvero tutta un’altra musica. Tastiere e chitarre s’intrecciano con i campionamenti creando un suono molto fresco e per nulla scontato. Rimanere fermi sulle note di brani come “Helena Beat” o “Pumped up kicks” è pressoché impossibile. Successivamente i Sum 41 ricordano un po’ a tutti perché erano il nome in seconda linea del punk rock americano, sempre alle spalle di Green Day e Blink 182. Per togliere ogni dubbio inanellano un medley di cover dei Metallica, che sarebbe stato meglio non sentire. Per fortuna incastonato tra loro e i My Chemical Romance, osannatissimi da una folta schiera di minorenni, c’è un uomo dalla barba molto folta che risponde al nome di Mr. E. Nel ruolo di capo gruppo dei suoi Eels, l’eccentrico musicista americano appare subito in buona forma e di ottimo umore, incantando la platea con un set composto da brani nuovi e vecchi hits della band. E sul finire dopo una pirotecnica e quasi cabarettistica presentazione della sua band la scena è tutta per l’anthem eelsiano per eccellenza “Novocaine for the soul”. Mark Everett riesce nell’impresa di accattivarsi un pubblico non completamente suo. La serata potrebbe anche chiudersi qui, ma ad aggiungere qualità artistica ci sono ancora i Band of Horses. La band americana suona sulla scia di “Infinity arms”, il disco pubblicato l’anno scorso a cui viene lasciato ampio spazio nella set list. Scaletta che però non tralascia nemmeno i singoli dei precedenti due lavori. Il crescendo emotivo di un brano come “The Funeral” è solo il picco di un’ora di viaggio tra riff di chitarre, melodie e atmosfere che trasportano quasi in un viaggio attraverso paesaggi da America “kerouachiana”.
Sabato 25 giugno
La giornata di sabato si presenta ancora più calda del venerdì. La sensazione quando si entra nell’area dei concerti, completamente assolata, è quella di stare dentro a un forno con un asciugacapelli puntato addosso. Nonostante tutto però i Polock, di Valencia, si disimpegnano bene con un gradevole indie rock in lingua anglofona che richiama un po’ i Franz Ferdinand un po’ altre cose. Tra i gruppi internazionali c’è parecchia curiosità per i Jamaica, francesi e nell’orbita della Kitsuné. Le premesse sarebbero buone a giudicare dall’album di qualche mese fa, solo che la versione dal vivo appare un po’ fiacca anche per via di suoni abbastanza banali. Chi ci mette invece il solito impegno sono i Blood Red Shoes. Il duo britannico paga però un secondo lavoro obbiettivamente non all’altezza di quello d’esordio. La differenza tra i nuovi pezzi e quelli di “Box of secrets” si sente eccome, tanto che i picchi maggiori rimangono quelli di “I wish i was someone better” e “It’s getting boring by the sea”. Da questo punto di vista i loro connazionali Vaccines partono senza dubbio avvantaggiati, dato che la loro scaletta è piena di potenziali singoli. Una prestazione buona quella del giovane gruppo, anche se forse un po’ troppo timida e compita, cosa che però non toglie forza a pezzi come “Wreckin’ bar” o “If you wanna”. Chi invece non ha problemi di esperienza e timidezza sono gli Hives, che andrebbero premiati solo per essersi presentati sul palco in frac e tuba incuranti del caldo soffocante. Ai musicisti svedesi non manca certo la presenza scenica e la capacità di catalizzare l’attenzione del pubblico. Mettono in scena un’ora di rock’n’roll quasi senza pause, mandando in visibilio il pubblico su brani come “Hate to say i told you so” o “Main offender”. E’ dunque la volta dei Ting Tings, che ad agosto hanno in programma l’uscita del loro secondo disco. A giudicare da quello che si è sentito durante il concerto però il duo pare aver perso la capacità di creare quelle canzone pop dal ritornello gradevole che avevano reso l’esordio assolutamente godibile Ne risente quasi tutta l’esibizione, piatta e senza energia. Forse sarebbe stato meglio sciogliersi dopo il primo disco, viene da pensare. La scena è ora però tutta per i Kasabian, che dal vivo sono sempre un’autentica scurezza. Un gruppo che suonava da grande band già dopo l’uscita del disco d’esordio. I livelli sono altissimi, dato che ora Serge Pizzorno e gli altri musicisti possono spaziare nell’arco di tre dischi con il quarto in uscita. Proprio dal prossimo lavoro vengono eseguiti due pezzi: “Velociraptor” e “Switchblade smiles”, che sono sembrati di ottimo auspicio per il nuovo capitolo della discografia dei Kasabian. La platea è tutta per il gruppo inglese e i cori su “Club foot” e soprattutto la conclusiva “Fire” fanno quasi impressione. A confronto impallidisce il pur volenteroso concerto dei The Sounds e il solito concerto dei Crystal Castles. In particolare l’elettronica del duo (ai quali in concerto s’aggiunge un batterista) dal vivo risulta troppo ripetitiva, tanto che il pensiero durante tutta la loro esibizione è uno solo: “Un concerto dei Crystal Castles, vale per tutta la vita”.
(Francesco Melis)
21 giugno 2011