Share This Article
Un decennio dopo l’esordio sul grande schermo, la multimilionaria saga del giovane mago con gli occhiali giunge al suo ultimo attesissimo capitolo: fenomeno letterario fra i più significativi degli ultimi anni, imponente operazione di marketing creatrice di uno straordinario impero commerciale, Harry Potter ha rappresentato un punto di riferimento mediatico e culturale ultragenerazionale dall’attrattiva travolgente.
A un anno di distanza dall’uscita della prima parte dell’ultimo episodio, approda nelle sale l’epico epilogo della saga del maghetto occhialuto, che per la prima volta si avvale della riconversione in 3D.
Il secondo segmento di Harry Potter e i doni della morte abbandona il carattere da road-movie che aveva caratterizzato la prima porzione e sviluppa le dinamiche specificatamente belliche che trovano sbocco nell’ultima fase dell’avventura del maghetto occhialuto: sebbene la ricerca degli Horcrux ancora non sia ultimata è ormai evidente che lo scontro fra Harry e il temibile Voldemort è ormai prossimo e inevitabile, e la cupezza delle atmosfere non fa che enfatizzare i tratti tetri della narrazione. L’oscurità ha ormai divorato tutti gli ambienti e anche Hogwarts – la scuola di magia un tempo rifugio sicuro per “il bambino sopravvissuto” e i suoi amici – si è trasformata nel teatro di nuove violenze, immersa in un clima di terrore che l’ha resa quasi simile a una prigione, fra punizioni corporali e un più generale incasellamento quasi para-militare.
Il crollo delle certezze e il senso di distruzione sono gli elementi che caratterizzano la pellicola, che scava nell’eterna lotta fra Bene e Male evidenziando il potere dell’amore, espresso in primis dal rapporto fra i tre protagonisti Harry, Ron e Hermione ma che non manca di ripresentarsi in più forme, non ultimo sotto le spoglie del coraggioso amore materno.
David Yates alla sua quarta regia “potteriana” si dimostra il regista che più ha cercato di restituire coerenza alla frammentaria progettazione della saga cinematografica (affidata inizialmente a Columbus, passata poi a Cuaron e a Newell): sebbene il capitolo che forse è il più debole dell’intera serie (L’ordine della fenice) porti la sua firma, Yates nel corso dei vari episodi ha imparato a confrontarsi con la ricchezza di spunti ed eventi della scrittura della Rowling, restituendo una certa solidità all’impianto generale della saga. Spesso le trasposizioni cinematografiche dei romanzi di Harry Potter non si sono dimostrate all’altezza del ritmo e della poliedricità della narrazione, data l’eccessiva semplificazione e la conseguente bidimensionalità trasferita sui personaggi: l’epilogo si pone in controtendenza, probabilmente facendo leva sulla struttura circolare che si chiude attorno a ciascuna delle figure che i lettori e il pubblico hanno imparato a conoscere nel corso di questi dieci anni. La sceneggiatura ne I doni della morte si fa più capillare malgrado gli inevitabili gap, ma – complice la consapevolezza che giunti alle ultime battute della storia gli spettatori siano tutti al corrente dei trascorsi del racconto – la pellicola diviene più scorrevole e lineare e mentre lo sguardo sulla realtà si fa sempre più maturo, il film ne guadagna in appeal e diventa decisamente più appassionante.
L’angosciante crescendo di tensione costruito nel corso del primo segmento dell’ultimo capitolo trova nella seconda parte la sua massima esaltazione: fra le rovine del castello di Hogwarts Yates, facendo leva sulla decostruzione dei luoghi simbolo della saga, restituisce credibilità alle mutate condizioni della realtà magica, grazie soprattutto al pregevole lavoro di fotografia – la gamma cromatica del grigio e del blu si infiamma dei toni caldi del rosso e dell’arancio delle fiamme e delle esplosioni.
Lo script stavolta consente un’esposizione prolungata anche a personaggi che non siano i tre protagonisti: nel corso della saga il loro talento non era mai parso offuscato ma è proprio in quest’ultimo capitolo che Alan Rickman e Maggie Smith sfoderano tutta la loro finezza interpretativa, giocando l’uno sulla tragicità dell’enigmatico e coraggioso professor Severus Piton – forse il personaggio più articolato dell’intero repertorio della Rowling – e l’altra sul sottile umorismo british della professoressa MacGranitt che ben si coniuga al temperamento determinato e intraprendente dell’insegnante.
Harry Potter e i Doni della Morte non è un film esente da difetti ma ha il pregio di svincolarsi definitivamente dalla stereotipata etichetta della saga del “fantasy per bambini”, secondo le linee guida già segnate dal precedente episodio: archiviata l’attitudine “infantile” di Colombus, i suggestivi richiami ellittici di Cuaron e l’approccio teen di Newell, nell’ultima fase dell’epopea potteriana prende forma la dittatura della Magia Nera e Yates seppure con qualche incertezza sembra affrontare con lucidità la crescente inquietudine. L’elemento action qui acquista senz’altro un ruolo preponderante, ma il conflitto fra Voldemort e Harry non si risolve a un mero scontro fisico-magico finendo per coinvolgere i grandi temi della riflessione e del confronto, fra ciò che è Giusto e Sbagliato, sul coraggio e sulla lealtà.
Così mentre J.K. Rowling sceglie di non lasciarsi alle spalle il mondo di Hogwarts – il progetto Pottermore diventerà realtà in ottobre grazie al nuovo portale web – è giunto davvero il tempo di mettere un punto a un’esperienza collettiva che difficilmente troverà nel corso di pochi anni un valido supplente: longeva e oggetto di contrastati dibattiti, l’epopea del ragazzino sopravvissuto al più oscuro dei maghi è giunta alla sua conclusione anche per quanto riguarda il grande schermo, e lo fa con un film che sembra addentrarsi con più sicurezza nella trama e fra i personaggi, dimostrandosi finalmente capace di gestire – pur con le dovute riserve – le pagine della scrittrice che ha saputo conquistare più di 400 milioni di lettori.
(Priscilla Caporro)
21 luglio 2011