Share This Article
Forse è pretestuoso affidare alla comparsa sulle scene dei WU LYF un’aura di fatalistica provvidenzialità, eppure riesce difficile non notare una sottile linea, una sorta d’intangibile filo conduttore, che collega il messaggio racchiuso nella musica dei 4 mancuniani ai moti di protesta scatenatisi quest’anno in molti paesi arabi e giunti questa primavera anche qui in Europa, quasi come la coda un po’ sbiadita, ma comunque imperiosa, di un’altissima ed inarrestabile onda.
Pretestuoso, utopistico o fantasioso che sia, è comunque suggestivo provare a pensare che ciò che muove questi ragazzi di Manchester, siano essi anarchici, punk, o figli di papà che giocano a fare i rivoltosi (come malignato da certa stampa britannica, disorientata dall’esordio autoprodotto e indispettita dalla riluttanza della band a concedere interviste), siano lo stesso senso di rifiuto e la necessità di rinnovamento (pardon, rivoluzione) che animano gli indignati spagnoli, le decine di migliaia di manifestanti ungheresi e, perché no, tutti quegli italiani riscopertisi cittadini attivi ad amministrative e referendum.
L’indignazione verso una classe politica corrotta ed inetta, la repulsione nei confronti di una società governata dalle banche e dai flussi di denaro che solo quest’ultime ormai dirigono, il terrore strisciante ma irrefrenabile per le incognite economiche del futuro: queste e mille altre sono le motivazioni hanno fatto scendere in piazza giovani in tutto il mondo, e questi sono anche gli impulsi che sembrano costituire il cuore pulsante della musica dei WU LYF.
“Go Tell Fire To The Mountain”, l’album d’esordio di questi quattro misteriosi individui, è uscito da un mese e, dopo infiniti ascolti, è impossibile levarsi di dosso la sensazione che rappresenti la colonna sonora perfetta per questi giorni di protesta.
Sarà per quel nome un po’ così (WU LYF sta per World Unite! Lucifer Youth Foundation), sarà per la voce di quel cantante (all’anagrafe Ellery Roberts) piombato sulla terra da non si sa dove, o sarà per alcuni mantra che ricompaiono ciclicamente nelle liriche del disco, sarà per questi motivi o per altri ancora che il viaggio che s’intraprende insieme al collettivo britannico per “andare a rivelare il fuoco alla montagna” si trasforma in una sorta di ancestrale rito iniziatico, di sabba rabbioso ma consapevole, dove rabbia è sinonimo di energia e rivolta significa liberazione.
Su tutto questo furore alleggia però anche un’ineluttabile velo di disincantata amarezza e non potrebbe essere altrimenti, visto che sono pur sempre i “figli di mezzo della storia” ad esternare qui il loro disagio.
Per dare una soundtrack alla nostra generazione i WU LYF si appropriano di decenni di iconografia rock, arraffando, senza darlo troppo a vedere, dettami stilistici del punk e del post punk, di certa psichedelia sixities così come della dark-wave più riottosa e teatrale.
Il risultato di queste contraddittorie alchimie è un sound davvero particolare, ora audacemente anacronistico (provare per credere l’irresistibile “Spitting Blood”, miscuglio di ritmi tribali e gommosi stilemi funk –punk) ora dannatamente diretto ed incisivo (il punk pop di “Dirt”, sorta di manifesto programmatico della band). Inutile avventurarsi nella descrizione dei singoli brani, che tra climax emotivi quasi springsteeniani (“Such A Sad Puppy Dog” e “14 Crowns For Me & Your Friends”) e folli cavalcate carnevalesche (“We Bros” e la bellissima “Concrete Gold”), chiedono solo di essere ascoltati a ripetizione, per entrare lentamente in circolo e non uscirne più.
Se è vero che ogni epoca ha la propria musica e le proprie band-simbolo, sarebbe bello credere, anche solo per un secondo, che la comparsa dei Wu Lyf possa rappresentare un segnale, una sorta di messaggio divino strampalato ed incoerente, eppure così viscerale, che ci spinga a ritrovare la veemenza e la forza essenziali per la rivolta. Una rivolta che passi non solo attraverso l’impegno ma anche necessariamente attraverso una purificazione dell’anima tramite il gioco, la danza ed il divertimento, tutte cose per cui il conto in banca, per fortuna, non è indispensabile. Ricordate quindi: “No matter what they said, dollar is not your friend!”
82/100
(Stefano Solaro)