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Era dal 2005 che mancavamo dal Ferrara Buskers Festival. E ogni anno che passava si lasciava dietro un rimpianto in più, nel sospetto – che diveniva via via certezza – che quella dei musicisti di strada fosse la dimensione più autentica – e per questo più difficile – del fare musica. Il modo migliore per portare e far conoscere alla gente tutti i generi e gli stili. Perfino le poche ore trascorse mercoledì sera, 24 agosto, tra le piazze del centro, sono state un tuffo in un piccolo big-bang musicale.
Davanti al duomo si esibiscono i britannici Swing Ninjas, con il loro accattivante jazz gitano, fra swing e patchanka balcanica, lungo la via già aperta dal grande Django Reinhardt. Chitarra, sax, basso-tuba e elicone: il trio diverte ma forse non stupisce quanto vorrebbe. Poco più in là troviamo il soft rock romantico del brasiliano Tupahn, chitarrista ormai habitué del festival: i suoi strumentali, spesso arrangiamenti di pezzi celebri (Beatles, Procol Harum ecc.) con sfoggio di manierismo tecnico, irretiscono con efficacia ma stancano come la pasta di mandorle. In una stretta via la gente fa capannello attorno alla Babbutzi Orkestar, italianissima malgrado il nome: la musica klezmer fa quasi sempre presa. Ancora swing festoso e popolare, ma più classico – chitarra, clarinetto, batteria -, con i tre Oum Tcha.
Un po’ defilati, di là da viale Cavour, ci imbattiamo nelle Officine Zambelli. Avevamo già avuto modo di ascoltare la band in due o tre occasioni, ma mai on the road. I pezzi originali di Lorenzo Zambelli, con un leggero retrogusto bohèmienne, hanno il pregio di funzionare a qualsiasi livello di amplificazione e di dimensione esecutiva. Frutto di una cultura musicale stratificata, fra country-folk, blues, ritmi latini, pop e cantautorato di matrice franco-italiana, con una evidente attenzione per i testi e la stesura vocale, suonano non unici, ma certo piuttosto atipici nel panorama del festival. Dalle madri dei desaparecidos argentini, quelle di Plaza de Majo, alla diaspora irlandese (“Madre” e “Goodbye Irlanda”); dalla satira antireligiosa alla denuncia delle truffe finanziarie (“I Tre Ciechi” e “The Broker Ballade”), dai bisogni e sfoghi esistenziali alla acuta critica di costume (“Qualcuno in cui poter credere”, “Libera i sogni”, “Parole vuote”), dal richiamo di terre lontane alle dinamiche del rapporto amoroso (“Africa”, “Nulla è come sei”): le Officine sono ormai a regime e garantiscono un’offerta ampia e di indubbia qualità, oltre ad una tale variegata gamma di registri da tenere costantemente all’erta l’orecchio e l’interesse dell’ascoltatore lungo le due ore dello spettacolo.
La serata volge al termine. Verso la mezzanotte, come cenerentola, ci ritiriamo in buon ordine, ma senza perdere la scarpina.
(Federico Olmi)
10 settembre 2011