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Che tocchi accontentarsi è ormai un dato appurato. Con l’invidia nel cuore per la mole di nomi presenti nelle line-up di tutta Europa, dal Portogallo alla Slovacchia, si affronta la prima giornata dell’I-Day.
Si perché l’I-Day pseudofestival di Bologna può contare su tredici gruppi in due giorni. Per circa 70 euro. Non poco, ma il forte richiamo di due della band più rappresentative e seguite della scena britannica, Kasabian e Arctic Monkeys, vince su tutto. E anche, almeno nei numeri, sulla grande classica del punk sbarbino della domenica che quest’anno per headliner ha quei giovani emergenti degli Offspring.
Una giornata smaccatamente brit per aprire l’I-Day dopo il chiaroscuro di Modest Mouse/Arcade Fire, una combo che un po’ a sorpresa ha disatteso aspettative straordinarie nella scorsa edizione.
Problemi logistici di spostamenti e trasporti impediscono di assistere all’ennesimo battesimo del fuoco degli Heike Has The Giggles, la band italiana più chiacchierata e discussa – per la varietà di pareri – di Kalporz. E di assistere poi ai Morning Parade. Così vista la defezione per problemi di salute del vocalist dei Vaccines, next big think dell’anno, l’afoso pomeriggio al Parco Nord scivola via tra le inutili canzoncine dei Wombats, la loro inevitabile hit in cui nominano invano il nome dei Joy Division e analisi sociologiche sugli avventori.
Latitano le minorenni innamorate di Alex Turner, i cloni degli eroi del momento di NME si contano sulle dita di una mano. Un paio di residuati bellici mancuniani sosia di Liam Gallagher, qualche t-shirt di Ian Brown et similia provano a costruire l’atmosfera giusta. Ma, in generale poca appariscenza e inesistenti scene da festival britannico per accogliere in Italia quelli che restano due dei più longevi nomi clou della nuova ondata indie d’oltremanica. Che siano cambiati i gusti del pubblico o che siano cambiati e cresciuti Kasabian e Arctic Monkeys, è difficile stabilirlo. Risulta molto più facile realizzare come buona parte del pubblico più turistico sia nella storica sede di una Festa dell’Unità che si chiama ancora Festa dell’Unità solo e unicamente per i White Lies. Scetticismo preventivo d’obbligo, eppure la versione degli Editors per giovani coppie annoiate, dal vivo funziona. Ottima resa sonora, le canzoni sono quello che sono, ma si capisce perché dal vivo condividano main stage con nomi di una certa portata.
E finalmente in un clima pre-serale che fa tanto festival europeo, i Kasabian guadagnano il palco per quello che si preannuncia il solito spettacolo d’impatto. Senza pretese né compromessi troppo artistici, la band di Leicester sembra sempre più l’unica via d’uscita possibile dal complesso Primal Scream di molti connazionali. Non solo nel mood eternamente scazzato e indolente, ma per il potere dei groove che vince sull’approssimazione di certi passaggi, Pizzorno e soci la sanno lunga. Saranno ricordati come Primal Scream degli anni Zero? Tra qualche anno lo capiremo. Le cantilene di un Veighan sempre fattissimo sono ormai da sussidiario del recente pop inglese. Pizzorno instilla al solito un’acidità Seventies figlia degli Stone Roses.
Così dall’altra parte della scena la folla non può che saltare estasiata tra classici (“Club Foot”, “Shoot The Runner”, “I.D.”, “Empire”), sussulti da raver degli albori (“Underdog”, “Vlad The Impaler”). Le nuove dal quarto LP in uscita, “Velociraptor!” convicono a metà. Certamente la titletrack e “Switchblade Smile”, un po’ stanca e già sentita “Days Are Forgotten” che pure pare già nota a tutti. Ma l’entusiasmo è alle stelle. Serge Pizzorno ha un’accoglienza da star tra cori di stadio e isteria collettiva. Fino a “L.S.F.” e la chiusura corale con “Fire”. Derivativi, ok. Alcolizzati, ok. Inaffidabili, ok. Poco significativi artisticamente, senz’altro. E’ necessario ripescare l’ormai sdoganatissimo theme di Pulp Fiction del mostro sacro Dick Dale in medley con i deliri surf di “Fast Fuse”? Assolutamente no. Tutto sacrosanto, ma siete mai andati a un loro concerto?
Chi riteneva gli Arctic Monkeys un fenomeno lungo una stagione – incluso il sottoscritto – si è ricreduto da tempo. Il secondo album, con i suoi difetti di fabbrica (ripetitività, astuzie varie) ha ricalibrato al rialzo le quotazioni dell’acerbo e sconvolgente debutto. Poi il viaggio iniziatico al fianco di Josh Homme a segnare definitiva l’esperienza del giovanissimo quartetto di Sheffield. Meno propensi agli indie anthem senza per fortuna disperdere la vena di Alex Turner, senza dubbio uno dei songwriter britannici più interessanti degli ultimi tempi. Senza menarsela troppo i Monkeys sputano subito quattro brani in dieci minuti e poco più. “Library Pictures”, “Brianstorm”, “This House Is A Circus” e “Still Take You Home”. Inizio fulminante. Ritmica coesa. Suoni di chitarra ruvidi e taglienti come da marchio – e non difetto – di fabbrica. Fronzoli inesistenti. Il contatto di Alex, ciuffo a banana e conciato come un nostalgico della scena di Glasgow degli anni ’80 che neanche i Kasabian, è inesistente. Ma la voce c’è eccome.
Arrivati in Italia per presentare il più che discreto “Suck It And See”, ma innamorati persi di “Favourite Worst Nightmare”. E dal secondo best-seller dell’indie-rock inglese che pescano la maggior parte dei brani. Praticamente sette su dodici della tracklist (arriveranno ineluttabilmente “Teddy Picker”, “If You Were There, Beware” e “Do Me A Favour”). Ineccepibili, la platea già surriscaldata da Pizzorno e compagnia cantante, si trasforma presto in una bolgia. C’è poco da stupirsi se in “Don’t Sit Down ‘cause I’ve Moved Your Chair” e “Pretty Visitors” l’headbangin collettivo prevalga imprevedibilmente sull’approccio fighetto da fotocamera puntata su Turner. In “All My Own Stunts” si finiscono per formare in ordine sparso dei focolai di flipper che neanche al gods of metal.
Le lezioni stoner di mastro Homme vanno a nozze con la sempre meno ingenua irrequietezza di Nick O’Malley e Matt Helders. “The View From The Afternoon” e “I Bet You Look Good On The Dancefloor”, in sequenza, sono il binomio rappresentativo di una maturità ormai indiscussa.
Non mancano i momenti corali, tra vecchio e nuovo. “She’s Thunderstorms” è già un piccolo classico, la stridente “Hellcat Spangled Sha La La La” osannata che neanche “Mardy Bum”. L’unico richiestissimo classico a non arrivare. Arriva invece, e sarebbe un torto a loro stessi, “When The Sun Goes Down”. L’effetto karaoke forse stuzzica il lato più emotivo di un Turner troppo duro per gli standard. Arriva la prima e unica stecca, il trascinante crescendo però fa dimenticare tutto presto. Diciassette brani prima del bis. Altri tre dopo il brevissimo break. La titletrack del nuovo è più che altro una scelta di campo. Il ritmo sembra calare, l’umidità e la fatica sembrano prendere il sopravvento. Ma in fondo “Fluorescent Adolescent” e “505” arrivati a questo punto renderebbero anche a cappella con un bongo e un ukulele.
Duole un po’ dirlo, visto lo snobismo di circostanza e l’importanza della band di Montreal, ma chi era convinto che fossero gli Arcade Fire a segnare più di tutti il passaggio nel nuovo decennio dell’unico pseudo-festival italico, si è dovuto inaspettatamente ricredere.
(Piero Merola)
6 Settembre 2011
1 Comment
Claudio Fontani
Ma solo per voi gli Arcade Fire hanno fatto schifo un anno fa?