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Sostenitore accanito della cultura Do It Yourself, Todd P è uno dei guru indie più influenti di New York. Con mentalità e stile un po’ retro (per farsi un’idea basti il sito molto minimale e scaruffiano: link) questo trentaseienne nato in Indiana e cresciuto in Texas organizza delle serate in dive e club fuori dai circuiti, le promuove su internet e puntualmente nel giro di due giorni finiscono tra gli eventi clou di The Village Voice, dell’edizione newyorkese di TimeOut e persino nelle segnalazioni del New York Times. Il merito? Quello di aver creato un hype attorno alle sue serate non tanto per trend a uso e consumo di snob e neo-bohemien di Brooklyn quanto per la qualità delle stesse. Deerhunter, Lightning Bolt, Matt and Kim, Japanther, Black Dice, Xiu Xiu, Ex Models, Mount Eerie, Dirty Projectors, Dan Deacon, Thermals, Hella, Yacht, Spank Rock per fare qualche nome emergente che tanto emergente non è rimasto. I prezzi mai oltre i 10 dollari e le location impagabilmente metropolitane.
Un dive alquanto dissestato tra garage e ex-deposito in Kent Avenue ospita ben quattro band in una delle prime serate dell’autunno 2011 promosse da Todd. Kent Avenue è nel cuore di Williamsburg, trasformatosi da anonima zona residenziale a epicentro di Brooklyn e della scena indipendente internazionale. L’avenue costeggia l’East River Park con una ventosa e silenziosa veduta mozzafiato dello skyline di Manhattan notturno.
Tornando a Todd e al suo live sono i Minks e i Beach Fossils gli headliner della serata a tema Captured Tracks (etichetta locale, vedi Dum Dum Girls, Ganglians, Blank Dogs, Wild Nothing, The Soft Moon). Aprono Heavenly Beat e Dive, due progetti paralleli rispettivamente di John Pena e Cole Smith degli stessi Beach Fossils. La location sufficientemente sui generis e artistica rischia di confondersi con un altro scantinato al numero 289 perché numeri civici non ne esistono, si va un po’ a sentimento fidandosi dei buttafuori. A Williamsburg è difficile capire il genere di serata in base al look della gente. Lo strapotere hipster è lampante. Un quartiere popolato da t-shirt dai colori smunti, baffo sdoganato, camicie a quadri e cappelli da baseball (lui), mix di Jessica Fletcher e Santogold (per lei). Persino i cinesi e gli asiatici qui sono hipster. E gli under-18 che godono delle serate di Todd, tra le poche il cui ingresso non ha limiti d’età.
Gli Heavenly Beat oscillano tra atmosfere molto languide tra XX e chill-wave e rappresentano un ottimo preludio ai Dive. Il nome non sarà il più originale della terra né tantomeno la proposta musicale. Eppure il collettivo a cui ha preso parte un ex-Smith Westerns – a riprova degli infiniti collegamenti tra questo network di nuovi revivalist dell’East Coast – riesce subito a scaldare questo cupo venerdì sera con un revival new-wave molto etereo e nervoso non privo di momenti kraut e di vaghe masturbazioni shoegaze. Lasciano il segno eccome, di canzoni ne hanno e diventano i protagonisti della serata. Ai bordi di uno dei waterfront più famosi del mondo. Saranno (loro) famosi. Mentre Blue Light e Pabst Blue Ribbon (birra lowcost hipster per antonomasia) scorrono a litri alla faccia delle leggi della contea sul consumo vietato ai minori, le scariche shoegaze degli inediti dei Dive lasciano il segno. Fino a un’autoreferenziale e devastante cover di “No Compass” dei Blank Dogs. A oggi è stata rilasciata solo “Sometime”, per dicembre è atteso un EP.
I Minks, fazione più tradizionalista della combriccola, con il validissimo “By The Hedge” hanno avvicinato il sound a bassa fedeltà tipico dell’etichetta di Mike Sniper (Blank Dogs appunto) a una vena pop più tipica di Cure e Smiths. Dal vivo si sente poco, anche perché la platea è surriscaldata a livelli record e un incomprensibile battle game con microfoni wi diretto dal dj e protrattrosi per almeno venti minuti non placa gli animi. I bostoniani hanno brani di alto profilo quali “Cemetery Rain” e “Funeral Song” che inseriscono bene in questi suoni ronzanti e sempre sospesi tra C86 e My Bloody Valentine come culti della propria esistenza. Diventeranno i nuovi Clientele? Le premesse ci sono tutte.
E tocca finalmente agli eroi della serata. Inutile spiegare come un 90% dei trecento e non oltre presenti a questa pseudo-festa privata made in brooklyn sia qui per i Beach Fossils. Un album all’attivo che ha segnato nel bene o nel male l’estate indipendente del 2010. Perché di estate si tratta quando sempre a partire dai Clientele si trasfigurano i patemi esistenziali in uptempo scanzonati tra reminiscenze surf e inevitabili inni da spiaggia. Si, certo quella hipster e fuori le righe. “Daydream”, “Vacation”, “Golden Age”, “Holiday”. Sarà pure eccessivo e considerato il pogo violentissimo che si scatena fin dalle prime note, ma è una festa e qui evidentemente funziona così. Magari tra un anno succederà lo stesso per i Dive e ci si dimenticherà dei Beach Fossils, e così via…
(Piero Merola)
26 Ottobre 2011