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Ci sono dischi che fanno centro al primo ascolto. “Guellarè” è certamente uno di quelli: aperto e sincero, caldo e coinvolgente. I sei anni trascorsi dall’ultimo “Bastimenti” si sono tutti distillati in questo disco prezioso, cristallino come l’animo di un bambino, di un guellarè, termine dialettale calabrese di origine araba, che in sé racchiude le prove di una comune fratellanza mediterranea. Con esemplare chiarezza e sincerità Perri ci descrive gli splendori e le miserie del suo complicato e contraddittorio Sud, splendidamente supportato dal fedele Squintetto – Piero Gallina, Nicola Pisani, Enzo Naccarato, Checco Pallone, Carlo Cimino – che dal sole di musiche e ritmi tradizionali sa far germogliare bagliori di più moderne inquietudini. Lo dimostrano la tarantella rivisitata di “Tarabella”, che dal solco della tradizione prende la strada di uno swing sui generis, e la title track, con quella sua lirica invocazione al mare tutta concentrata all’inizio, introdotta dal suono spirituale del didjeridoo, un “Infinito” che si scioglie poi nello strumentale di accenti quasi jazzistici, un bebop etnico che supera d’un balzo i confini della musica popolare: una autentica “Sea-song” sudista.
Le suggestioni sono molteplici: dal De André del “Recitativo”, che risuona nella voce recitante di “Carrette di Mare”, affidata a Alessandro Castriota Skanderbeg, all’energia pulsante in apertura di “Il mio Sud”, che con le dovute iniezioni di elettronica starebbe a pennello in un disco dei Mandara. Il nume tutelare dell’autore di “Crêuza de Mä” aleggia un po’ dappertutto e si concretizza in quel delicato omaggio che è “Battente per Faber”, un gioiello di affettuosa commozione all’insegna della chitarra battente, strumento di cui Perri è indiscusso maestro: un omaggio che si trasforma in meditato confronto, in riflessione sul rapporto fra tradizione e innovazione, alla ricerca di un equilibrio raggiunto dai due cantautori attraverso itinerari antitetici: riscoperta e personale interpretazione delle radici mediterranee, della antica culla, nel poliedrico e onnivoro genovese; adattamento e aggiornamento di quelle medesime radici ai linguaggi moderni nel cariatese.
Non è un concept “Guellarè”, a differenza dei due dischi che l’hanno preceduto, “Rotte Saracene” (1992) e “Bastimenti” (2005), ma in un certo senso ne riprende e porta a compimento le tematiche, riassumendole in un insieme di quadri che compongono il mosaico di una “forma smisurata di donna”, “di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi”, una terra che affascina e spaventa, attira e respinge insieme: la solidarietà e l’ospitalità per “l’altro” da parte di chi “altro” è stato a sua volta, al di là di ogni differenza di razza e colore della pelle (“Carrette di Mare”); la rievocazione di una tragedia del mare, che si fa trenodía per i tanti, troppi caduti del lavoro (“Malanottata”); la fatica e l’orgoglio dei pescatori di Cariati, “pesci buttati contro ricatti mafiosi” (“Controvento”); il sogno infantile di viaggi in paesi lontani (“Nel Vento d’Africa”) e di un comune spirito di fratellanza fra le genti (“L’Anima du Munnu”); l’affetto e la pietà filiale (“Il Tempo e il Pudore”); l’esuberante passione amorosa così bene espressa dalla tarantella (“Tarabella”); la smania per le nuove forme di socializzazione via web messe giustamente in ridicolo con ironia e salace garbo (“Facie Puke”).
“Guellarè” è anche un elogio della lentezza e della meditazione, degli affetti semplici: una goccia d’acqua che riflette il mondo circostante.
Partecipano Rosa Martirano e Ouadia Farhat.
85/100
(Federico Olmi)
12 ottobre 2011
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