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Di tradimenti, si sa, è piena la storia del rock.
La leggenda vuole che Robert Allen Zimmerman, presentandosi a Newport nel ‘65 con in braccio una chitarra elettrica, abbia a malapena evitato il linciaggio, attirando su di sé le ire della comunità folk.
Qualcosa di simile accade ai Clash quando nell’anno di grazia 1979 diedero alla luce “London Calling”, album destinato a cambiare per sempre la storia della musica rock ma che fece imbestialire i vecchi fan della band, che accusarono di “tradimento ideologico” Joe Strummer e soci.
All’uscita di “Kid A”, nell’ottobre del 2000, i Radiohead regalarono ai posteri uno dei dischi più influenti degli ultimi vent’anni, ma dissero per sempre addio ad una nutrita schiera di ammiratori che sperava in un “Ok Computer” atto secondo.
Con il dovuto rispetto per i mostri sacri appena citati, non è azzardato affermare che simile sorte toccherà ad “Hysterical”, il terzo album dei Clap Your Hands Say Yeah, destinato a deludere molti degli abitanti dell’indie-sfera, che da quattro anni ormai attendevano con trepidazione il terzo disco della band di Brooklyn.
Prima di dare il via ad un qualsiasi tipo di considerazione su “Hysterical”, è però indispensabile una riflessione sull’esordio di Alec Ounsworth e soci che, nel 2005, scosse l’intera scena musicale indipendente dalle fondamenta.
Al di là della formula vincente (produzione, promozione e distribuzione fai da te) con cui l’omonima opera prima dei CYHSY era giunta alla ribalta internazionale, ciò che ammaliava del loro debutto era la totale trasfigurazione della forma canzone in un’esperienza ludica totale e totalizzante.
Sospeso tra imprevedibili bozzetti dadaisti e irresistibili affreschi metropolitani, l’esordio del complesso newyorchese emozionava per la sua immediatezza, candidandosi a diventare per l’attuale generazione di indie rocker quello che “Croocked Rain, Croocked Rain” era stato per la passata.
Nel suo successore, “Some Loud Thunder”, a qualche confusa (e auto-compiaciuta) bizzarria sperimentale facevano da contraltare i soliti obliqui lampi di genio che, uniti alle pazzoidi trame vocali di Ounsworth (vero marchio di fabbrica della band), ad una variopinta strumentazione ed ad una produzione volutamente sporca, rendevano il disco interessante per i più ed imperdibile per i fan.
“Hysterical” dice invece addio a quasi tutte le stravaganze ed alle allegre iperboli ritmiche che tratteggiavano la personalità dei CYHSY, assumendo così le fattezze di un tradimento urlato senza timori in faccia a tutti i fan più ortodossi.
Niente più stilemi wave racchiusi in caleidoscopici fumetti chitarristici quindi, ora la band si esprime attraverso un pop-rock estremamente enfatico e vibrante, memore della lezioni di band come i Manic Street Preachers ed i Radiohead di primi anni ’90.
L’attacco di “Same Mistake” è più che eloquente in questo senso: strofa incalzante che si distende su muri chitarristici e crescendo atmosferici di synth e tastiere, prima del ritornello cantato a squarciagola da un Alec Ounsworth stranamente intonato. Sarà proprio questo la formula prescelta dalla band per la maggior parte dei brani in scaletta, a discapito però del songwriting multiforme che li ha resi famosi.
Malgrado la produzione sopraffina di John Congleton, la bellezza degli arrangiamenti e la ricchezza della strumentazione, è infatti impossibile negare il forte debito di fantasia che “Hysterical” paga nei confronti delle vecchie composizioni dei CYHSY.
Al di là delle bisbetiche atmosfere di “Maniac” e dei graffianti caroselli di “Ketamine and Ecstasy”, entrambe arricchite da liriche divertenti e strampalate, non si trova traccia in quest’album del consueto spirito eccentrico del complesso di Brooklyn.
Se si prova però a dimenticare per un secondo la comprensibile delusione per non avere più di fronte la band di un tempo, ecco che il giudizio di “Hysterical” passa sotto una lente differente.
Sarebbe davvero un delitto infatti, non lasciarsi sedurre dai fini ricami di pezzi come “Misspent Youth “ (davvero riuscito il dialogo chitarra-pianoforte, a sostegno di un testo quanto mai incisivo) o “Into Your Alien Arms” (un crescendo di pathos che deflagra nell’elettrizzante assolo finale) che insieme a “Yesterday, Never” vanno a comporre un filotto di brani dal tono spiccatamente radioheadiano (periodo“The Bends”).
Benché la prova vocale di Alec Ounsowrth in ”In a Motel” faccia venire in mente ancora una volta Thom Yorke ed i suoi lamenti, il pezzo brilla invece di luce propria, impreziosito da eleganti dissolvenze acustiche avvolte da colonne di archi ed organi.
Qualunque sia il proprio giudizio su Hysterical, non si può negare che i Clap Your Hands Say Yeah siano dotati di una grande dose di coraggio. Non è da tutti abbandonare quasi completamente la formula che ha portato con sé il dono del successo, per abbracciare una svolta anacronistica (chi altro suona questo genere di pop-rock ora?) che potrebbe sì regalare loro l’exploit commerciale, ma anche decretare il declino del loro prestigio.
Mentre nel frattempo piovono giù dal cielo già le prime stroncature, chi ha ancora fiducia nei CYSHY non deve far altro che ignorarle, selezionare “Adam’s Plane” e premere play .
I ragazzi sono tornati e di talento ne hanno ancora da vendere, nonostante tutto.
68/100
(Stefano Solaro)