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Visti dal vivo a Latina, i Ganglians non meritavano un pubblico così scandalosamente freddo, quella sera. Ma è Latina, si sa, non puoi presentarti a gente con occhiali finti, kefiah viola ed allstars con gli strass se nel repertorio hai solo bozzetti surf west-coast. Per quanto tu possa essere avvincente, perché in realtà i californiani erano sembrati divertenti e luccicosi, complici le illuminazioni natalizie che pendevano dal soffitto.
Forse è per questo che, a risentirli su disco con una collezione di brani nuovi, non ci si ritrova più quello stesso guizzo swing. “Call Me” è un buon pezzo, si fa canticchiare, ma poi si sprofonda sempre più nell’anonimato. “Sleep” è oggettivamente brutta, sembra un Kurt Cobain banale più che mai che con una tastierina Casio prende per i fondelli i Beach Boys. “Bradley” sembra John Lennon lobotomizzato che cerca di ricordarsi come faceva “Imagine”. “Things To Know” è degna dei Red Hot Chili Peppers, e con questo ho detto praticamente tutto. Nessuno mi toglie dalla testa che “Good Times” abbia un ritornello che è la versione apatica di “Noi Non Ci Saremo”. E se mi viene voglia di mettere su i Nomadi, ammetterete, c’è qualcosa che non sta funzionando. E via così, noia, cori fastidiosi (“California Cousins”), tastiere messe a caso (i Joy Division buttati a forza in “The Toad”). I tre minuti scarsi di r’n’r di “Faster” non sono troppo male, ma poi l’ultimo pezzo “My Eyes” rinnova le perplessità.
Questa è gente che cerca di guadagnarsi un posticino tra Animal Collective e Fleet Foxes intrecciando cori noiosi per 55 minuti, decisamente troppi, ed è questo il prezzo da pagare per aver abbassato la guardia con la recente piega del nuovo indie. Il quale ci sta rifilando sempre più spesso gli avanzi rancidi del vecchio mainstream.
40/100
(Lorenzo Centini)
foto dei Ganglians di Jan Rasmus Voss
20 ottobre 2011