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Venticinque minuti di autentico furore new wave. Ma ne servirebbero di più per descrivere la performance sui generis del collega di Ariel Pink. Anonimo lunedì sera a Washington. La capitale non è più quel vivaio di talenti garage come vent’anni fa, come sancisce il barista/tuttofare. Con barba stile zz-top malgrado si trovi a lavorare club più cool della città. Così quando la serata ha inizio una ventina di malcapitati fanno compagnia agli altrettanto malcapitati Young Prisms nella saletta underground che il Black Cat chiama backstage. Un avviso campeggia un po’ ovunque nel suggestivo dive. NO CROWD SURFING OR STAGE DIVING. YOU WILL BE REMOVED WITH NO REFUND. Come se qualcuno ci sperasse nel rimborso. Nessun rischio comunque fin da subito. I giovani nostalgici shoegaze di San Francisco provano a rievocare i piacevoli spettri cari agli Slowdive. Buon sound, l’anemica singer fa la sua scena, ma i brani del debutto “Friends For Now” suonano un po’ insipidi.
Sulla stessa scia, invece, ma molto meglio i Big Troubles. Quartetto dal New Jersey in grado di realizzare due validi album in dodici messi, “Worry” e “Romantic Comedy”. Dai fuzz che piovevano senza pietà dell’esordio lanciato dal piccolo inno indipendente “Bite Yr Tongue” alle deviazioni twee del seguito. Il suono live ne risente. Meno Jesus & Mary Chain, più Teenage Fanclub. “She Smiles For Pictures” e “Sad Girls” denotano una buona vena, malgrado l’originalità non sia esattamente il loro punto forte. Tra un’ammiccata e l’altra a Corgan e soci, l’esibizione scorre molto liscia. Promossi.
Ma finalmente arriva lui. John Maus. L’ineffabile compositore con alle spalle PHD in Dottrine Politiche al SAIS di Ginevra sale su un palco completamente scarno. Un paio di pedaliere per basi e gli effetti vocali. Dinoccolato, vestito da dopolavoro, subito sudatissimo e apparentemente fattissimo inscena uno spettacolo che è una via di mezzo tra Mark E. Smith e un piano bar dark. “We Must Become The Pitiless Censors Of Ourselves” è a oggi uno degli album più significativi del 2011 (recensione). Una sorta di risposta intellettuale e per inguaribili darkettoni rimasti ancora sotto per Ultravox e affini. Nonostante la brevissima durata del live – il report sta già superando il minutaggio massimo – l’intensità è a tratti emotivamente irresistibile. I brani diventano dei flash fulminanti in cui il posseduto trentenne del Minnesota si trasfigura in un Alan Vega da telefilm americano. Soffre, si tiene il cuore, pare che da un momento all’altro sia sull’orlo del collasso psichico e fisico. Carica la platea, ora più nutrita ma dai numeri comunque relativamente non irripetibili, balla, invita le prime file a danzare, si danna in ogni modo come se le turbe gotiche di brani quali “The Crucifix” o “Streetlight” lo pervadessero dalla testa ai piedi. E poi “Head For The Country”, lo spleen senza confini di “And The Rain Come Down. Uno zombie amletico a tutti gli effetti, come definito alla perfezione da Giordani qui su Kalporz. “Maniac”, “Do Your Best” fanno ingoiare amaro. Lo zombie si dimena, si strugge ed esce di scena senza aggiungere nulla.
Ventidue minuti a loro modo irripetibili.
(Piero Merola)