Share This Article
Tutto improbabile. I Real Estate che presentano a due giorni dall’uscita il nuovo attesissimo album ad Astoria e non a Brooklyn. Frontiera nord-ovest di Queens, simbolo dell’immigrazione multietnica del boroughs più sfigato di New York. La location: un bizzarro beer garden ceco-slovacco (col trattino), il più antico pub della città (Bohemian Hall, 1910). Con l’inestimabile varietà di club della confinante Williamsburg, la zona rossa hipster di Brooklyn dove tra qualche anno per sembrare hipster si finirà per esserne l’opposto. E poi, ancora: l’orario pomeridiano, pomeridianissimo, intorno alle sei. E infine appunto il palco, in un giardino assediato fino a qualche minuto prima del concerto da illuminatissimi personaggi che hanno preso parte alle olimpiadi della birra con tanto di divise dei loro team. Prima dell’arrivo del popolo di Williamsburg, ovviamente, anche se litri e litri di Pilsener Urquell e Staropramen continueranno a scorrere fino a sera senza problemi.
Così per il secondo album della band simbolo della nuova scena del New Jersey anche Kalporz si adegua con una recensione a metà strada tra il racconto e la descrizione dei brani in sé. Anche perché i Real Estate li si era scoperti prima del tempo, nei mesi del loro esordio assoluto in Italia al Diagonàl di Forlì di quasi due anni fa (link). E sfruttare l’occasione dell’invito al party di release dell’album tenuto segreto fino a un paio di giorni prima è un’occasione certamente irripetibile. Provare a digitare REAL ESTATE su google per cercare informazioni. Una missione anch’essa improbabile.
Il giardino delle birre è gremito. E non è per l’happy hours. Atmosfera molto intima e familiare. Familiare in senso stretto vista la presenza dei fierissimi genitori di Martin Courtney e Matt Mondanile, voce l’uno, controvoce l’altro, chitarre entrambi per quello che è ormai diventato un trio dopo l’addio di Etienne alla batteria. Il meno nerd della band Alex Bleeker a intrattenere pubbliche relazioni con il pubblico cercando di mettere a loro agio le due new entry (terza chitarra e appunto batteria). Il live è peraltro scaricabile qui.
Dopo le trame monocordi dell’esordio, tra spiagge tristi molto Neil Young, liquidi rimandi surf nelle chitarre e digressioni strumentali oniriche, i Real Estate non potevano fare di meglio. Per non ripetersi e marchiare un sound sempre più peculiare. “Days”, l’esordio sotto l’illustre Domino ed eseguito praticamente per intero, ha dalla sua rispetto all’esordio eponimo una maggiore varietà. Gli agrodolci panorami dei suburbs lasciano spesso e volentieri spazio a sollievi balneari. “Out Of Tune”, già esplosa con l’EP “Reality” aveva fatto prefigurare grandi cose. “It’s Real” è stato uno dei brani simbolo dell’estate indipendente con dei sorprendenti riferimenti chitarristici smithsiani.
E poi “Easy” al di là del titolo è una boccata d’aria fresca tra le pippe mentali di molti nomi derivativi dell’East Coast indipendente. Courtney e soci, insomma, laddove nell’esordio in “Beach Comber” e poco altro movimentavano la situazione di gradevole torpore, nel nuovo album sembrano meno timidi. Cosa che poi sui palchi a dirla tutta non è mai mancata. “All The Same” è raffinata quanto accattivante. La voce di Martin ha una carica narrativa indiscutibile. Come se i Feelies fossero sbattuti a velocità controllata su una strada verso l’Ovest. Le chitarre annichiliscono con arpeggi evanescenti da Red House Painters dei nostri tempi (“Green Aisles”).
Solo “Kinder Blumen” e “Three Block” (scritta da Mondanile) ricordano troppo direttamente nei passaggi le nebbiose istantanee del passato. Sospese in una dimensione Sixties molto haze i Real Estate sfociano in imprevedibili catarsi quasi Byrds in “Wonder Years”. Colpisce la maggiore efficacia pop e la qualità della canzoni quanto e più dell’atmosfera. L’impressione è che Mondanile avesse lasciato per i suoi Ducktails quelle deviazioni lo-fi che avevano reso le tracce d’esordio dei perfetti flash da spiaggia crepuscolare. “Municipality” è struggente da sembrar scritta dai vecchi R.E.M., “Younger Than Yesterday” è Neil Young.
Forse già troppo maturi per la loro età, o più semplicemente dei nemmeno venticinquenni vecchi dentro. Ma davanti a piccoli capolavori del genere sono solo riflessioni improbabili quanto un pomeriggio senza tempo in un pub di periferia, mentre poco più in là a Dumbo apre i battenti l’incredibile festival audiovisuale Creators Project e a Manhattan “Occupy Wall Street” invade Times Square.
80/100
(Piero Merola)