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C’è una leggenda islandese che narra della genesi delle fate. La tipica assurdità sincretica da evangelizzazione. Un pasticcio di elementi norreni, medievali e cristiani. Un giorno Eva stava lavando le sue bambine, quelle concepite dopo Caino e Abele. La voce di Dio tuonò come un monito dal cielo: «Eva!». La donna, che dopo l’ultimo richiamo di Dio si era trovata sfrattata dal paradiso terreste, nuda, disoccupata e gravida (con dolore), si spaventò a morte. Per prima cosa, nascose le figlie di cui non aveva ancora completato l’abluzione, non sia mai gli fosse venuto in mente di maledire pure loro, e tenne in bella vista solo quelle già pulite. Dio allora le chiese dove fossero le bambine. Candidamente la donna rispose: «Scusate Signore, le avevo nascoste nelle frasche perché quando mi avete chiamato con quel vocione, mi sono spaventata e non volevo che le vedeste sporche… Sapete, già me n’è morto uno di figlio e quell’altro è scomparso…». Dio aggrottò la divina fronte: «Ma come? Mi nascondi i figli tuoi? Allora io nasconderò per sempre loro alla tua vista e alla mia». E così nacquero le fate, una razza di esserini alati, che amano rendersi invisibili e frequentare le foreste incantare, le fiabe e i comodini delle ragazze. Sì perché le ragazze delicate amano le fatine. E da maschio mi è difficile partecipare di questa fascinazione. Non riesco a trovare nulla d’interessante nell’essere gracile, etereo e aerodinamico di queste creature. Anzi, mi fanno pure un po’ impressione. Probabilmente perché trovo stucchevoli in sé la gracilità, l’etereità e l’aerodinamicità e non ho molta simpatia per i volatili. Ma la vita ti insegna un sacco di cose: che niente è come sembra, che alla base delle convinzioni morali e sociali dell’umanità vi sono solo contenuti di marginale e becero opportunismo, che in chimica non esiste la percentuale perfetta e che c’è del fascino poetico pure nelle fatine verdi o blu e nei piccioni che divorano avidamente le briciole che i benefattori gli lanciano addosso. Tutto questo preambolo è d’uopo per presentarvi una fatina islandese che suona chitarra e il charango in stile trobadorico e dal nome che copia-incollerò, per non stare qui venti minuti a cercare il simbolo “o” con dieresi sul menù “inserisci” di Word: Ólöf Arnalds.
La ragazza, nata nel 1980, fa mostra di un curriculum di tutto rispetto: studi classici di violino e canto lirico, collaborazioni live con i Múm e i Storsveit Noltes e due ottimi album solisti (“Við og Við” del 2009 e “Innudir Skinni” del 2010, con l’aiuto di Sigur Ros, Bjork e Shahzad Ismaily) per la One Little Indian.
Oggi la fatina ritorna con una mini raccolta, “Ólöf Sings”, in cui riprende e rivisita cinque dei suoi brani preferiti: “Close My Eyes” di Arthur Russel, il medley “With Tomorrow/I’m on Fire” di Springsteen, “Solitary Man” di Neil Diamond, “She Belongs To Me” di Bob Dylan e “Maria Bethania” di Caetano Veloso. La musicista ordisce arrangiamenti delicati e pieni di grazia, in cui la voce carezza dolcemente accordi arpeggiati in scala minore e dorica di chitarra classica. Le emozioni si librano al si sopra della superficie del mondo, lì dove la poesia riesce a nutrirsi di semplicità e armonia, senza farsi invischiare dalla dittatura dei significati o nel limite delle definizioni. Come l’eco lontana e delicata di una sensibilità comune, forse nascosta in ognuno di noi, ma sovente dispersa nel vuoto della delusione o nel pieno riempito delle distrazioni e dell’accessorietà dello stile di vita contemporaneo.
La distinta leggiadria della voce di Ólöf ricorda la grazia folk di Vashti Bunyan e il magnetismo della Kate Bush meno barocca, e ha molto in comune con Dylan, di cui riprende appunto cavalcantesca e amara “She Belongs To Me”, forse la cover migliore dell’Ep, in termini di ricostruzione filologica e traduzione dello spirito insito del brano.
Gentile l’omaggio in fingerpicking a Springsteen, in cui la cantante incanta attraverso fragili sussurri e fiabesche armonizzazioni chiuse (l’“uuuuh uuuuh” di “I’m On Fire”). “Solitary Man” è concepita attraverso l’abbinamento di una strofa tipicamente country (molto Cash style) e un ritornello melodioso che permette a Ólöf di ostendere i registri più alti della propria vocalità. Affascinante e tecnicamente mirabile l’interpretazione di “Maria Bethania”, famoso brano del 1971, che Caetano Veloso dedicò alla sorella minore, poi grande interprete della stagione tropicalista brasiliana.
Peccato che sia solo un Ep. In mezzo a questo deserto di siccità e fuochi fatui, la grazia intimista di Ólöf Arnalds è come pioggia salvifica. Poche gocce, ma dotate di particolare purezza e commovente trasparenza. Ma è giusto che il progetto difenda se stesso e la propria delicatezza attraverso filtri più morali che intellettuali. In questo mondo, la magia delle fate si rende più invisibile che mai, e forse è un bene… per la loro salvaguardia e in termini di conservazione aristocratica: solo le anime più sublimi sapranno intuirne la presenza e il fascino. E rispetteranno questa bellezza, con la loro gentilezza e la cura naturale che hanno per la vita, le persone, le bestie, le bestiacce, le cose e i sentimenti. I bruti non se ne accorgeranno neppure. A ciascuno il suo. O Toto modo: È lo stesso. Non fate baccano, toglietevi le scarpe, spegnete il telegiornale che vi comunica che non avrete mai una pensione (ma tanto che ve ne importa, non avrete mai neanche un lavoro) e ascoltate le fatine.
(78/100)
Giuseppe Franza
4 novembre 2011