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Non so dove foste il 31 dicembre del 1999. A festeggiare su una spiaggia esotica, sotto l’ombra dei grattacieli in una grande capitale? Io ero a letto completamente annullato dalla febbre. Per me il salto nel Duemila è stato un tonfo senza precedenti, e a ripensarci sembra chiaro il perché. Quando la preoccupazione più grande si chiamava millennium bug, quando da mesi si preparava il Capodanno che ci avrebbe portato in una nuova epoca, quando lasciandoci alle spalle il Novecento e le sue guerre sembrava davvero che l’umanità avrebbe avuto la strada spianata verso il futuro. Quando le lancette si sono fermate sulla mezzanotte, e ci siamo risvegliati senza i traumi del collasso informatico che si temeva, qualcuno si preoccupava di andare al di là delle storie con cui ci avevano bombardato per mesi, convinto che tutto questo non fosse che la più grande delle illusioni. Che la storia fosse finita da tempo, che fossimo già oltre l’uomo, e che questo andasse raccontato in forma diversa. Che il collasso fosse ormai definito, e che sarebbe solo stato questione di attenderlo. Bolle speculative, piazze a picco, fiumi di banconote rosso sangue e povertà dilagante in nome del mercato. Eppure ci abbiamo sperato.
Guardare avanti, reinventarsi codici e linguaggi. Quando il dubstep ha preso piede negli ambienti d’Oltremanica, non a caso si è parlato del nuovo fenomeno musicale del momento. Nuovi orizzonti, nove suggestioni, un nuovo sentimento condiviso che poteva radicarsi in un immaginario che andasse ben al di là di un insieme di produzioni su nastro. A tratti si è parlato anche di cultura, prima di tornare a occuparsi del solo elemento sonoro. Magari fosse stato realmente considerato quanto puro fosse quel sentimento, perché c’è un filo che ne lega gli esponenti di punta alla sociologia di nomi illustri quali Lyotard, Bauman, Augè, Harvey. Il presente costruito su illusioni rivestite di vetro, baraccopoli sotto l’ombra dei distretti finanziari, chilometri quadrati di quartieri senz’anima, città-mercato, parcheggi sterminati e mostri di cemento armato. I Vex’d ci hanno messo di fronte alle schegge impazzite causate dagli psicodrammi di una società che scherzava col fuoco sotto un enorme fungo atomico, preannunciando la catastrofe che ci avrebbe atteso. Distance ha raccontato i suoi demoni notturni e Burial l’alienazione metropolitana. E abbiamo anche finito per credere di poterci immedesimare in quello spleen urbano dalle tinte romantiche, abbandonandoci al senso di solitudine come se quei nonluoghi fossero ancora abitati da persone reali e non da spettri che vagavano in cerca di una vita che già aveva cessato di essere. Più che ascoltare musica, l’impressione è che abbiamo avuto la possibilità di immergerci in veri e propri trattati antropologici che dipingevano la condizione della civiltà occidentale, spazzata via dall’utopia del progresso dell’uomo che finisce invece per sventrare la sua stessa carne in una guerra fratricida sospinta da ideali devianti. La maledizione di un processo di annullamento totale delle coscienze, sacrificate sull’altare di un fragile e ingannevole equilibrio di potere. Qui si sono impiantati il dubstep e il grime, caricandosi sulle spalle la croce di raccontare gli scenari di un futuro dalle tinte apocalittiche. Beat sincopati – gli ultimi sussulti di un cuore agonizzante – e bassi profondi a scavare quanto ancora rimaneva di ciò che eravamo, voci distanti e lamenti nella notte: lo stadio conclusivo, le convulsioni di un corpo straziato in un panorama di cemento mai così cupo e desolante.
Perché non l’abbiamo messo a fuoco da subito? Preoccupandoci di presenziare alla serata X o di sviscerare quella determinata trama ritmica, beandoci di quanti ascolti gli abbiamo dedicato, non abbiamo forse perso di vista l’urgenza comunicativa che teneva assieme tutte queste opere? Non siamo stati tacitamente complici di spostare l’attenzione da quella che era la spinta primordiale del suo motore, ignorando quanta vita scorresse in quei suoni e quanto straziante fosse il grido che si celava dietro? Abbiamo celebrato il nuovo sound senza preoccuparci di cosa sarebbe venuto dopo. A distanza di anni è il momento di fare i conti con la realtà una volta per tutte, perché siamo ormai fuori tempo massimo. La domanda a questo punto è: che cosa viene dopo? Esiste un futuro dopo il futuro? Annichilito l’uomo e ciò che ha costruito, cosa è ancora lecito aspettarsi dal corso del tempo? I due Vex’d sembrano gli unici a potercelo dire con certezza.Per Jamie Teasdale, in arte Kuedo, sembra esserci qualche residuo bagliore di luce in mezzo a una spettrale staticità. Melodie all’apparenza colorate si contrappongono a un senso di macabro smarrimento, come se il processo di cancellazione non sia del tutto completato. Siamo già oltre la distruzione o c’è ancora qualcosa da sventrare? E può un raggio di sole rappresentare una speranza, quando tutto intorno non si notano che polveri? Il senso di equilibrio tra quanto è stato portato via e quanto ancora si possa scavare emerge in tutta la sua disturbante capacità di illudere che un’ancora di salvezza sia dietro l’angolo. Si corre su un filo quanto mai sottile ma la sensazione è che non ci siano barriere a limitare gli effetti del processo: si attende il cedimento in un limbo, senza sapere con certezza quando avverrà. Palazzi sventrati di cui rimangono gli scheletri in acciaio. Sospesi in un eterno indefinito, aspettando una redenzione che non arriverà.Per Roly Porter siamo oltre tutto quanto. È il requiem per la società del consumo, e non può che suonare come il paranoico vuoto cosmico che inghiottisce ogni detrito che ancora rimane, estirpando ogni traccia di natura. Oltre l’immaginabile. Discendente da un’indole sterminatrice e distante galassie dagli ideali dei secoli passati, il futuro non è che un concentrato di quanto più tenebro sia stato prodotto dall’uomo. Non c’è la minima parvenza di vita, non ci sono battiti. Sotto cumuli di macerie, forse neppure cellule e batteri. Ritorni di sparo lontani e onde radio provenienti da chissà dove: si riconosce solamente un’infinita distesa di sabbia, a sotterrare le città dimenticate. Prima che un’esplosione inneschi un nuovo ciclo da cui si ricompone tutto, o che la scure cali definitivamente sulla terra che abbiamo conosciuto.
Se tra cento anni ci sarà ancora chi racconta la storia alle nuove generazioni, l’insegnamento dovrebbe avvenire attraverso l’ascolto di opere così pregne di significati.
Così vivevano.
Il futuro che ci aspetta ce lo hanno già raccontato loro.
(Daniele Boselli)
6 gennaio 2012
3 Comments
Anacleto
Boh sarà, ma in kuedo ci vedo solo del gran retrò (ed è per quello che lo apprezzo), come suoni e come riferimenti (aka plagi): Low (vedi a new career in a new town), vangelis di blade runner, massive attack.
Per il resto è interessante il post, mi chiarisce il modo che molta gente ha di porsi all’elettronica, soli in una stanzetta con i campionamenti a coprire i suoni della città/mostro. Io non riesco a figurarmici e, grazie al cielo, la mia cultura è fatta di musica (pop), quindi vex’d si balla come gli autechre, burial di gran classe, e tutto viene smerdato per i teenagers da skrillex. Perfetto, no?
daniele
ti ringrazio per il commento anacleto, anche se in realtà il mio post è uno dei tanti spunti possibili legati a quello che suscita un certo tipo di musica e non intendo certo imporre la mia visione o rivendicarla come l’unica via per capire il dubstep. il fine direi piuttosto che è offrire un punto di vista ‘altro’, sicuramente radicale nella posizione di fondo, ma che non esclude quanto tu hai detto (musica da ballare o farsi scorrere addosso in club o dove vuoi). perché di musica si tratta.
quanto al disco ti rivelo che la versione ‘ufficiale’ di Jamie T non è né la mia né la tua, mi ha detto che l’album riproduce il suo stato d’animo post rottura con la sua ex ragazza quindi fai un po’ te 🙂 ma del resto l’articolo è a nome mio e non suo o di altri, le mie pippe mentali le ho tenute tali proprio per mantenere la prospettiva, giusta o sbagliata che sia. che la componente retro sia massiccia sono d’accordo ma personalmente non la vedo come quella che ‘eleva’ il disco. per meglio dire, anzi, i pezzi che più guardano avanti sono quelli che lo tengono in piedi da soli e per questo ho insistito su quest’elemento, magari anche un po’ forzatamente, certo.
Francesco Marchesi
Ciao Daniele, straordinario articolo, complimenti. Anch’io in effetti tendo ad avvicinarmi al “fenomeno musicale” in modo piuttosto pensoso, certo come intrattenimento, ma anche (spesso) come sintomo di qualcosa d’altro. Volevo chiederti cosa ne pensi del processo di rapida commercializzazione del mondo cui fai riferimento: il mio dubbio è che non si tratti solamente della volontà di sfruttare a fini di lucro alcune idee, ma, forse, della ricerca autentica di una via d’uscita, rasserenante attraverso una spiccata sensibilità pop, da quell’olocausto suburbano che tu così efficacemente descrivi. Penso ad esempio ai Mount Kimbie, a Girl Unit, agli stessi Kode9 e James Blake. Una fuoriuscita, per così dire, per negazione, rimozione (scusa l’eccesso di termini apparentemente psicoanalitici, è solo un tentativo di spiegarmi).
Un saluto.