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Il mito della Fenice e la trasfigurazione di ogni mito. Di più, il nuovo Ronin è la percezione della totale gamma di volatili sensazioni che riempiono l’aria che respiriamo, riportate in musica, parcellizzate e poi sparigliate come tessere di un puzzle, riprese e ricomposte a guisa di altri puzzle, affini eppure diversi dall’originale. Per Dorella il progetto Ronin è sempre stato quello in cui si può affrontare di tutto, liberi da dogmi o ispirati da essi, con lo scopo di restituirli alla libertà che la loro stessa definizione nega. Ancora il fuoriclasse Nicola Ratti alla sei corde, sezione ritmica rinnovata con Chat Martino (Quasiviri) al basso e Paolo Mongardi alla batteria.
“Fenice” è colmo di visioni, di senso cinematico della musica e non è un caso se vi partecipano attivamente altri due giganti come Enrico Gabrielli (composizione e arrangiamento fiati) e Nicola Manzan alla composizione e arrangiamento degli archi. Di intersezioni di mondi diversi si diceva: “Selce” e “Jambyia” costituiscono il cuore morriconiano/western del tutto, con quest’ultima, splendido arazzo imbastito con un che di tropicalista e una ritmica dai rimbalzi dinamici sulla strada del math e un formidabile inserto pianistico di Gabrielli.
Da “Spade” a “Conjure Men” è un susseguirsi di immagini, rifrazioni che convergono verso il centro di gravità imprevedibile della malinconica e liquida title-track e la destabilizzante cover di “It Was A Very Good Year” – di Ervin Drake e successo di Frank Sinatra -, unico pezzo cantato ad opera di una sorprendente Emma Tricca. Da lì in poi è chiaro che “Fenice” è un disco prezioso, capace di soprendere ad ogni ascolto, ad ogni particolare che si scopre quando quelle dannate tessere del puzzle rompono di nuovo le righe e compongono altri scenari, altri mondi.
80/100
(Giampaolo Cristofaro)
30 Gennaio 2012