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Roma è il simbolo, equivoco e complicato, di immane potenza e decadenza. La storia, l’impero, la chiesa, la politica, la cultura. In tutte queste cose c’è luce, e tanta ombra. All’arte il compito di redimere le coscienze. E a Roma di arte ce n’è quanta ne vuoi, di qualità monumentale. Ci sono affreschi di Cimabue buttati lì in un’edicoletta di fronte al fruttivendolo, mostre pittoriche una meglio dell’altra, manifestazioni culturali più o meno importanti e più o meno riuscite e molta voglia di musica. Solo che, tra le nuove leve, oltre a qualche fenomeno warholiano di callido situazionismo non c’è molto altro. Ed è così che a salvare l’Urbe ci ha pensato un giapponese.
E che giapponese: Damo Suzuki, glorioso cantante dei Can periodo “Tago-Mago” e artista infaticabile, ancora oggi brillante nella sua proverbiale stranezza creativa. Da qualche tempo (dal 1983) gira il mondo legandosi a diversi musicisti, con i quali registra album estemporanei, spaziando dalla psichedelia all’elettronica, dall’hip hop al folk, e improvvisa concerti memorabili. Eccolo così a Roma, accompagnato da un gruppo di tutto rispetto: Manuel Agnelli alle tastiere, Xabier Iriondo alle sue chitarre strane, Cristiano Calcagnile alla batteria e percussioni e l’onnipresente Enrico Gabrielli ai fiati. La band ha stupito il pubblico del Circolo degli Artisti l’anno passato con un concerto-evento in stile Dada. E visto l’elemento (Suzuki) parlare di dadaismo non è così sbagliato. Il disco coglie i fiori sbocciati in quel concerto free-form, li accosta in una composizione semplice e li offre alla nazione, orfana di veri eroi underground e di artisti capaci di scuotere gli animi. Non che Suzuki abbia la soluzione ai mali del nostro paese, né suggerimenti intelligibili (il suo “canto” anglo-nipponico è continuamente distorto attraverso grida, rantoli e versacci), ma il disco, nei titoli (geniali, e molto primi Afterhours) e nei suoni è molto combattivo. Oserei dire, nella maniera giusta: senza trascendere in proclami, cliché, o proteste fini a se stesse. C’è un luogo chiamato Inferno, di cui vorrei parlare. Il suo girone più grande è destinato agli ignavi. A quelli che non prendono mai posizioni, che non osano, che seguono la scia di mode e convenienze senza chiedersi manco perché. Gente che pensa solo ai soldi e alla propria tranquillità e semmai protesta lo fa perché sente in pericoli questi soldini e questa tranquillità. Ci sono anche musicisti di questo genere. Che non azzardano, non evolvono, non si muovono, non si lasciano andare. Perché sarebbe rischioso e non comporterebbe guadagno.
Suzuki fa del rischio una ragione di vita; una ragione estetica. E per questo bisogna che gli perdoniamo alcune ingenuità e tutte le sciatterie e le sbavature del suo stile. Perché sono autentiche e trascinanti. Agnelli, Iriondo, Calcagnile e Gabrielli sono effettivamente trascinati in un vortice d’ispirazione e producono una musica viva, sperimentale solo nel suo insieme. Ogni traccia ha un senso forte e nasconde infinite possibilità. I generi musicali si sovrappongono e poi si annullano attraverso l’allucinata direzione del cantato di Suzuki. Calcagnile fa la parte del leone, sfogando tutta la propria creatività, avanzando ora etnico, ora concreto, come una perfetta macchina ritmica; Gabrielli trasforma improvvisazioni indecise in climax armonici e passaggi ovviamente blues in meditazioni malinconiche. Agnelli si limita agli abbellimenti e a creare armonie modali. Iriondo fa quello che sa fare con chitarre e distorsori. Lo spleen è affascinante, quando la band si abbandona a esercizi di jazz oscuro e traballante, ed esplosivo quando la confusione tonale cresce e si avviluppa intorno alla voce del frontman, come in un baccanale di spaventevole impatto.
E proprio questo è Roma: elegante confusione, un miscuglio di sacro e profano, cultura e trivialità, ricchezza e povertà, potere e debolezza, indifferenza e amore. La Roma in fiamme dell’epoca di Nerone, dove tutto si amalgamava e ascendeva come fumo denso e indistinto verso il cielo degli dei. Per ogni salvezza, infatti, ci vogliono sacrifici. Qui si bruciano in olocausto l’ignavia della forma canzone, l’ordine e soprattutto l’ego dei musicisti coinvolti. Ognuno fa il suo lavoro, al servizio della sceneggiata schizoide di Suzuki. E m’è piaciuto assai. Anche su Roma il giudizio finale è più che positivo. Si salverà. Ci sto da qualche tempo e non è affatto male. Tutto dipende infatti dalle associazioni, dai sentimenti coinvolti e dalle suggestioni. Amen.
75/100
(Giuseppe Franza)
7 febbraio 2012